Cavour and Santena an indissoluble bond

di Pierangelo Gentile (Università di Torino)

6 giugno 1886. Una domenica. Quel giorno, festa dello Statuto albertino – così si chiamava la costituzione del Regno d’Italia – sulla “Gazzetta piemontese”, usciva un articolo in prima pagina dal titolo semplice ma lapidario: CAVOUR. Erano passati esattamente venticinque anni dalla morte dello statista, e quella ricorrenza segnava una vittoria per il quotidiano torinese: come per gli altri padri della patria, Vittorio Emanuele II, Garibaldi e Mazzini, annualmente si organizzavano commemorazioni in popolari pellegrinaggi alle loro tombe (rispettivamente il Pantheon a Roma, Caprera in Sardegna e Staglieno a Genova), così il quotidiano torinese era riuscito a sensibilizzare la politica e l’opinione pubblica perché in quel giorno speciale, 6 giugno, anche Cavour fosse ricordato in una solenne cerimonia a Santena, ultima dimora del Conte.

La facciata del Castello di Santena rivolta verso piazza Visconti Venosta
La facciata rivolta verso il parco. Il maniero, residenza di campagna della famiglia Benso, venne fatto costruire tra il 1712 e il 1720 su progetto dell’architetto monregalese Francesco Gallo

Non era stata un’impresa facile per il foglio, antenato de “La Stampa”, fondato nel 1867. C’erano voluti tre anni di campagna giornalistica. L’Italia non era più quella proclamata da Cavour il 17 marzo 1861; cinque lustri sono sufficienti perché un Paese cambi profondamente e i padri passino il testimone ai figli. Molti poi dei protagonisti di quell’epoca irripetibile che aveva segnato il “risorgimento” della nazione erano scomparsi; i padri “fondatori”, tutti: il primo era stato proprio Cavour, morto a Torino il 6 giugno 1861, appena ottanta giorni dopo aver costituito l’Italia; il secondo l’acerrimo avversario, il propugnatore dell’Italia una e repubblicana, Giuseppe Mazzini, spentosi a Pisa il 10 marzo 1872; il terzo, il primo re d’Italia, Vittorio Emanuele II, spirato al Quirinale il 9 gennaio 1878; il quarto e ultimo, l’Eroe dei due Mondi, Giuseppe Garibaldi, che esalò l’ultimo suo respiro a Caprera il 2 giugno 1882.

Al tempo della lotta per l’indipendenza era dunque seguito il tempo della memoria di fatti gloriosi. E così era nata una nuova “religione”, costruita dalle classi dirigenti per tenere viva la fiamma della patria, in uno Stato che più che mai aveva la necessità di mantenere saldo il popolo in nazione. Proprio come aveva auspicato un altro “padre”, Massimo d’Azeglio, anche lui scomparso, a Torino il 15 gennaio 1866, con la sua mitica espressione: “Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”. Se l’apostolo Mazzini e il suo credo repubblicano continuavano a vivere tra i seguaci dell’Idea unitaria; se l’inumazione del corpo del re al Pantheon di Roma aveva assunto il significato di marcare il territorio nella città culla del cattolicesimo; se la posa della prima pietra del monumento del Vittoriano, il 22 marzo 1885, era stata concepita per innalzare un tempio laico nella “Terza Roma” dei Savoia, dopo quella dei cesari e dei papi; se la memoria internazionale e l’esempio guerresco di Garibaldi trovava l’entusiasmo dei reduci e delle nuove generazioni, per tenere desta la memoria di Cavour negli italiani “in erba” era necessario uno sforzo ben maggiore.

L’esterno della cappella funeraria dei Benso di Cavour presso il castello di Santena

Il Conte era morto all’improvviso, agli albori dell’Unità, senza veri e propri eredi politici, compiendo un percorso umano e intellettuale più europeo che italiano: aveva conosciuto bene Ginevra, Parigi e Londra, aveva unito l’Italia, e perorato Roma a sua capitale: ma a Sud non si era mai spinto oltre Firenze. La tradizione di riferimento, la cosiddetta “Destra storica” (non un partito come intendiamo oggi, perché non esistevano, ma una “corrente”), costituita dall’aristocrazia e dalla grande borghesia liberale, si era progressivamente offuscata: la matrice piemontese, che ne era stata il nerbo, era stata spesso accusata, ingenerosamente, di fare del “municipalismo”, cioè di anteporre gli interessi della dinastia a quelli della nazione.

Nel 1876 – nel corso di una “rivoluzione” parlamentare – essa fu sostituita dalla “Sinistra storica”, riferimento per ex-mazziniani ed ex-garibaldini, democratici convertiti all’idea monarchica: uomini come Depretis, Cairoli e Crispi, succedutisi alla guida dei governi, fino a quel 1886, erano di quanto più lontano esistesse dall’ideale cavouriano. Troppo diverse le loro esperienze di vita e il loro approdo patriottico rispetto a quelli di Camillo Cavour. Così, l’esito, la cartina di tornasole del successo post mortem, fu che quando in Italia, tra anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento, cominciò quella che gli storici hanno definito “statuomania”, cioè la “mania” (ancora sotto gli occhi di tutti) di erigere monumenti ai patrioti nelle piazze e nei giardini pubblici, a vincere la competizione furono Vittorio Emanuele II e Garibaldi: cioè il simbolo dell’Unità e il braccio armato “della nazione”.

Camillo Cavour in uno dei più celebri ritratti conservati a Santena, opera del pittore fiorentino Antonio Ciseri

Più indietro chi, come Mazzini, aveva congiurato fino all’ultimo per un’altra idea d’Italia, che fosse di “liberi e uguali”, una, indipendente e sovrana; e chi, come Cavour, aveva messo il suo genio politico al servizio della Causa. Il fascino del re e del condottiero avevano la meglio su quello del cospiratore e del fine diplomatico. Così, vincendo la battaglia del tributo a Cavour, la “Gazzetta piemontese” si faceva capofila di tutta la stampa italiana, tributando alla memoria del Conte ammirazione e rispetto, «perché la riconoscenza verso gli uomini che hanno più contribuito alla rigenerazione e al riscatto della Patria è il primo dovere del popolo italiano, se vuole rendersi degno dei suoi alti destini».

Il sindaco di Torino aveva colto l’invito; un pellegrinaggio non si improvvisa. Giusto un anno prima, 6 giugno 1885, Emilio Balbo Bertone di Sambuy aveva mandato un telegramma al collega duca Leopoldo Torlonia, prosindaco di Roma, annunciando la costituzione di un comitato ad hoc per la celebrazione ufficiale e solenne del venticinquesimo anniversario della morte del conte Camillo Benso di Cavour, primo statista dell’Italia unita.

Il monumento dedicato a Camillo Cavour in piazza Carlo Emanuele II a Torino, opera dello scultore senese Giovanni Duprè, inaugurato dodici anni dopo la morte dello statista, l’8 novembre 1873

Quando, alle luci dell’alba del 6 giugno 1886, la “Gazzetta piemontese” entrava nelle case dei torinesi con l’articolo celebrativo in prima pagina, una folla di gente si era già data appuntamento in piazza Carlo Emanuele II (familiarmente conosciuta ancor oggi come piazza Carlina), sotto il monumento del Conte, inaugurato tredici anni prima, opera dello scultore senese Giovanni Duprè. Il comitato promotore del pellegrinaggio si era dato un gran da fare perché le onoranze fossero degne della nazione: l’appello a partecipare era stato diramato a tutte le Società popolari e militari d’Italia, ovvero alla parte più laboriosa e coraggiosa dello Stato, ai rappresentanti del mondo del lavoro e di coloro che alle patrie battaglie avevano preso parte. Un mondo associativo particolarmente caro ai sovrani Umberto e Margherita di Savoia.

Nel momento in cui la banda dell’Associazione Generale degli Operai, assieme alla fanfara del Circolo Popolare di Milano, intonava l’Inno di Mameli, «l’inno che resuscita i più antichi e forti entusiasmi», il corteo era pronto per sfilare. Prima via Accademia Albertina; poi via Cavour; infine via Roma, alla volta di Porta Nuova. Nel tragitto, passando di fronte a Palazzo Cavour, le innumerevoli bandiere dei sodalizi erano state abbassate in segno di saluto. Giunto alla stazione ferroviaria, era pronto il treno speciale fatto preparare dal comitato.

La stazione ferroviaria Cambiano-Santena – sulla linea Torino-Genova, inaugurata da Cavour – in una cartolina d’epoca

Alle otto in punto, carico di 600 persone, il convoglio prendeva la via di Cambiano sulla linea Torino-Genova, la stessa che il Conte di Cavour aveva inaugurato il 20 febbraio 1854, collegando la capitale amministrativa con la capitale commerciale del Regno di Sardegna. Non mancò il “piacevole” fuori programma: giunto il treno alla stazione di Moncalieri, altre società «con musica e bandiera» arrivate dai dintorni si erano assiepate sulle banchine: e per quelle 400 persone impreviste si rese necessario approntare in fretta e furia un altro treno speciale. Cosicché furono in mille coloro che giunsero a Cambiano con i mezzi organizzati; altre decine di Società si fecero invece trovare alla stazione d’arrivo, giungendo da altre vie. L’anonimo cronista della “Gazzetta piemontese” che avrebbe scritto il resoconto della giornata sul giornale del 7 giugno aveva contato 146 società, 105 bandiere e 5 bande musicali, per un totale di 1500 persone. Il lungo corteo, che si snodò tra i pochi chilometri che dividevano la stazione ferroviaria di Cambiano dal castello settecentesco dei Cavour ove si trovava la tomba del Conte, fu accolto all’ingresso della città dal sindaco di Santena, cavalier Borelli. Da lì, al suono della marcia funebre composta per la circostanza dal maestro emiliano Antonio Baur, le centinaia di pellegrini sfilarono mestamente «davanti alla modesta tomba di Cavour, nel sepolcreto della famiglia»; una processione che fu spettacolo «commoventissimo», cerimonia nella quale spirava «l’altissima poesia del dolore e della riconoscenza» di un popolo che portava il suo cuore «nella tomba di uno dei più grandi fattori della patria». Davanti alla semplicissima nicchia «coperta da marmo nero» con il nome dell’estinto e le date di nascita e morte, vennero deposte quattro corone: quella bellissima «di alloro e quercia» della Società operaie torinesi; quella del Comitato permanente per le onoranze a Cavour; quella del Comitato militare; e quella, infine, della Società Tabaccaie. La corona funebre di re Umberto giunse accompagnata da un telegramma ricco di retorica patriottica. Terminato il mesto corteo di fronte alla tomba, seguì un altro momento toccante, con la visita ai luoghi cari al Conte.

Qui è necessaria una breve digressione, per una tradizione che vive ancora oggi, ma che ha alle spalle vicende complesse. Se da un lato, in quell’Italia distratta di fine Ottocento era servito il potere della stampa per riportare agli onori della patria Camillo Cavour, dall’altro vi era chi, a livello familiare, non aveva mai smesso di alimentare il ricordo e il mito dello statista. Era toccato a Giuseppina Cavour (1831-1888) farsi vestale delle memorie del grande Zio. Seppure Giuseppina, nobildonna molto conosciuta in società, fosse moglie dal 1851 del senatore Carlo Alfieri di Sostegno (1827-1897) – fondatore dell’Istituto di scienze sociali di Firenze – e avesse tenuto in vita a Torino un salotto politico tra i più esclusivi, specialmente tra i diplomatici, non fu facile per lei conservare ciò che più caro era alla nazione, ovvero l’eredità spirituale e materiale del Conte. Camillo Cavour, che mai contrasse matrimonio, era morto senza lasciare una discendenza diretta; la famiglia era dunque proseguita attraverso la discendenza del marchese Gustavo (1806-1864) – fratello maggiore dello statista – e di Adele Lascaris di Ventimiglia (1807-1833): ma il primogenito Augusto, nipote prediletto di Camillo, era premorto a tutti, cadendo ventenne, nel 1848, alla battaglia di Goito, durante la prima Guerra d’Indipendenza. Cosicché, saltando la secondogenita Giuseppina in un’epoca in cui le eredità delle grandi famiglie si trasmettevano in linea maschile per evitare la dissoluzione dei patrimoni, tutti i beni dei Cavour erano finiti nelle mani del terzogenito Ainardo. Tra Giuseppina e Ainardo però non corse mai buon sangue. Troppo diversi i caratteri: lei responsabile e posata, finita in moglie a un personaggio in vista, il conte Carlo Alfieri, figlio del celebre Cesare, cofondatore assieme a Cavour del giornale “Il Risorgimento” e primo ministro costituzionale nel Piemonte del ‘48; lui tormentato e fragile, cresciuto senza madre (morta di febbre puerperale per la sua nascita), alla disperata ricerca di un futuro, schiacciato dalla presenza ingombrante di un padre bigotto e assente, di uno zio inarrivabile, e dal culto familiare nei confronti del fratello morto eroicamente in battaglia.

Il marchese Ainardo Cavour, ultimogenito di Gustavo, fratello del Conte. Con la sua morte, avvenuta senza eredi a Santena il 30 agosto 1875, si estinse il casato dei Benso

Quando, il 30 agosto 1875, il celibe Ainardo Cavour spirava a Santena, si estingueva non solo una prestigiosa famiglia piemontese che affondava le radici nel Medioevo: tutto il patrimonio dei Benso rischiava di finire in mani straniere. Ainardo non nominò erede universale la sorella Giuseppina; preferì costituire un legato a favore del cugino d’oltralpe Eugène Roussy de Sales, residente a Thorens, in Savoia. In quel legato rientravano il Palazzo avito torinese, il Castello di Santena e gli archivi del grande ministro.

La tenacia di Giuseppina ebbe però la meglio sul destino scritto in carta bollata: riuscì ad accordarsi con il cugino francese per un riscatto, a proprie spese, del Castello di Santena e delle carte ivi conservate. Ma non finì lì; Giuseppina si impegnò a recuperare anche molti degli oggetti e dei mobili che avevano arredato l’appartamento alienato di Palazzo Cavour a Torino, vissuto dal Conte. Riuscì così a radunare in una stanza del Castello di Santena i cimeli del defunto zio, dando vita, in occasione del venticinquesimo anniversario della morte dello statista, al primo memoriale cavouriano.

In un bel dipinto a firma Giani, la marchesa Giuseppina Cavour, nipote prediletta del Conte. A lei si deve l’apertura del primo memoriale cavouriano nel 1886, in occasione del 25° anniversario della morte dello Statista

Tornando alla straordinaria giornata del 6 giugno 1886, terminati gli onori alla tomba, Giuseppina Cavour fece spalancare le porte del Castello, perché il corteo potesse visitare la stanza del Conte riallestita al secondo piano della dimora: stipati nell’ambiente si trovavano i mobili, il letto, la scrivania; alle pareti, i diplomi, i ritratti di famiglia, la teca con l’uniforme del defunto nipote Augusto; su un cassettone, la pallottola che uccise il giovane a Goito, incastonata «sopra un obelisco mortuario, che porta un’iscrizione che ricorda il triste caso». Infine, in una piccola biblioteca erano radunati i volumi contenenti i discorsi parlamentari del Conte e il primo epistolario pubblicato a cura di Luigi Chiala. A emozione era dunque seguita altra emozione. Ridisceso al piano terra, il corteo si recava nel parco per assistere alla commemorazione, sotto un immenso padiglione che dalla sommità del palazzo si distendeva fino al prato. Per il cronista della “Gazzetta piemontese”, era «quel che si dice un colpo d’occhio, tutta quella gente chiusa come entro una grande siepe di bandiere, attenta, ora commossa, ora plaudente» al discorso del senatore, poeta e giornalista Desiderato Chiaves (1825-1895). Salito sul palco, l’oratore ebbe la parola dal cavalier Carlo Ferraris, presidente del comitato per le celebrazioni. E Chiaves fu commosso di vedere davanti a sé tanti operai, veterani e giovani studenti, lusingato di essere stato chiamato a commemorare l’uomo di cui si considerava discepolo, collega per molti anni alla Camera, compagno in tante battaglie politiche. Sull’onda dei ricordi personali, fu un discorso tutto teso a rievocare il genio del Conte, la cui vastità di mente «definir […] non è quasi possibile». Poi vennero le perorazioni finali, invitando tutti a rinnovare sulla tomba visitata il giuramento di fedeltà allo Statuto e alla famiglia regnante. Le parole appassionate dell’oratore, suscitarono un’ovazione entusiastica al grido di «viva il Re! Viva la dinastia di Savoia!». A mezzogiorno era tutto finito. Rientrati a Torino i pellegrini, 230 di loro si recavano al Valentino per un banchetto, onde festeggiare (con qualche mese di ritardo) l’anniversario del Regno d’Italia.

Da quel 6 giugno 1886, il ricordo di Camillo Cavour sarebbe entrato nel calendario civile della nazione. Per rendere ancora più suggestivo un luogo così carico di storia, Giuseppina Cavour fece fare ulteriori lavori di restauro nella residenza santenese; ma specialmente si impegnò per trasformare la Torre dei Benso, retaggio dell’antico castello preesistente alla villa settecentesca, nel luogo d’eccellenza della memoria cavouriana: sullo stile neo medievale del Borgo del Valentino, costruito nell’omonimo parco torinese per l’Esposizione nazionale del 1884, gli ambienti vennero riallestiti per conservare l’archivio, le numerose corone funebri deposte tutti gli anni nell’adiacente tomba del Conte, e specialmente per ospitare la camera di Camillo Cavour. Morta Giuseppina nel 1888, la missione di tenere viva la fiamma del pensiero e dell’azione del primo statista d’Italia passò alla figlia Luisa Alfieri di Sostegno (1852-1920), e specialmente al di lei marito, marchese Emilio Visconti Venosta (1829-1914).

Il marchese Emilio Visconti Venosta
La moglie, Luisa Alfieri di Sostegno

Così, anche se Santena finiva nell’orbita di una grande famiglia aristocratica lombarda originaria della Valtellina, la tradizione cavouriana proseguiva e si rafforzava, sotto lo sguardo autorevole di uno dei grandi protagonisti dell’Italia liberale. Sebbene avesse aderito in gioventù agli ideali mazziniani, Emilio Visconti Venosta era diventato una delle colonne del mondo liberal-moderato teorizzato da Cavour, finendo per occupare, in quarant’anni di carriera politica, otto volte la carica di ministro degli Esteri. Si impegnò perché il titolo nobiliare dei Cavour non si perdesse, richiesta che gli venne riconosciuta con regie patenti del 21 aprile 1904. Ma specialmente fu suo interesse affinché la tomba del Conte, nel cinquantenario dell’Unità, avesse un riconoscimento pubblico a livello italiano.

Fu così che nella “Gazzetta ufficiale del Regno d’Italia” di giovedì 6 aprile 1911, apparve il regio decreto n. 268 del 16 marzo. In esso Vittorio Emanuele III sanzionava e promulgava l’articolo unico approvato dalla Camera e dal Senato, e sottopostogli dal primo ministro Luigi Luzzatti e dal ministro della Pubblica Istruzione Luigi Credaro: la tomba di Camillo Cavour era dichiarata monumento nazionale. Da quel momento in poi Santena emergeva quale luogo-simbolo, non solo più retaggio dei nostalgici del Piemonte risorgimentale. Quando nel 1929 vennero firmati i patti Lateranensi che chiudevano il contrasto tra Chiesa e Stato che si trascinava sin dal 1870, epoca dell’occupazione di Roma da parte delle truppe italiane, Santena divenne il luogo dove deporre il “ramo d’ulivo”, simbolo della sancita pace religiosa: proprio sulla tomba dell’uomo che aveva propugnato l’indipendenza dei poteri spirituale e temporale (chi non ha mai sentito il motto “libera Chiesa in libero Stato”) e proclamato la Città eterna capitale della sorgente nazione.

Ma Santena era destinata ad andare oltre alle contingenze dei tempi e ai drammi della dittatura. Subito dopo la Seconda guerra mondiale, il marchese Giovanni Visconti Venosta (1887-1947), diplomatico antifascista, erede di Emilio, consapevole di morire senza discendenza, stabiliva il 30 maggio 1946 un codicillo a integrazione del proprio testamento: pur lasciandone l’usufrutto «vita natural durante» alla moglie Margherita Pallavicino Mossi (1898-1982), cedeva alla Città di Torino la nuda proprietà della «villa di Cavour a Santena con annesso parco, proprietà e terreni agricoli, la torre, la cappella mortuaria dei Benso di Cavour, l’archivio, i cimeli storici, mobili ed oggetti ivi esistenti».

Giovanni Visconti Venosta, che donò il complesso cavouriano di Santena alla Città di Torino
La moglie Margherita Pallavicino Mossi, che istituì la Fondazione Cavour il 18 aprile 1955

Uniche condizioni poste all’accettazione del legato erano che i beni non dovessero mai essere alienati dalla Città di Torino; che il castello, il parco, la cappella e la torre fossero conservati «a rievocazione della famiglia Benso di Cavour»; che parte dei locali annessi alla villa fossero «destinati a soggiorno di riposo per studenti o studiosi ed artisti». Morto il marchese Visconti Venosta il 14 novembre 1947, si procedette all’apertura del testamento; e il Comune di Torino accettò il legato con deliberazione del 10 luglio 1950, approvata dalla Prefettura. A quel punto toccò alla vedova Visconti Venosta esaudire le ultime volontà del marito: il 18 aprile 1955, nello storico Palazzo Cisterna di via Maria Vittoria a Torino, già residenza dei duchi d’Aosta, e a quell’epoca sede della Provincia (ora Città Metropolitana), alla presenza di Giuseppe Grosso, presidente dell’ente, di Gian Carlo Buraggi, direttore dell’Archivio di Stato di Torino, e di Giancarlo Camerana, vicepresidente del consiglio di amministrazione della Fiat, veniva rogato dal notaio Remo Morone l’atto di costituzione della Fondazione Camillo Cavour con il numero di repertorio 87.846: tra i suoi scopi, conservare e mettere in valore il legato dell’ultimo marchese Visconti Venosta, ma specialmente promuovere gli studi cavouriani, cioè «tutte le iniziative rivolte ad approfondire la conoscenza dell’opera del conte Camillo Benso di Cavour e dei suoi insegnamenti».

Era l’inizio di una grande sfida culturale. Il 3 luglio 1956, come scrisse “La Stampa”, cominciò a battere il cuore di tutti i liberali d’Italia, di chi «aveva sensi e spiriti per la poesia del Risorgimento», primavera della patria vissuta attraverso l’immagine «di colui che ne aveva trasformato in frutti la meravigliosa fioritura». Inaugurata la sede della Fondazione nel Castello di Santena, riaffiorava l’anima del «grande uomo» attraverso i documenti, viva testimonianza «dei suoi amori, dei suoi impeti, delle speranze e delle amarezze, di quel suo genio libero, audace, appassionato». Grazie alla sagace opera di Maria Avetta, docente di ginnasio e nuova vestale delle memorie cavouriane, prendeva vita una prima mostra in occasione del centenario di quel Congresso di Parigi che, dopo la guerra di Crimea, aveva proiettato il Conte sulla scena europea. Un assaggio dell’attività scientifica che aveva cominciato a pulsare attraverso prestigiose pubblicazioni promosse dal neocostituito Centro Studi Cavouriani. Arrivarono i primi riconoscimenti ufficiali per questa meritoria attività: il 22 gennaio 1957, il Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi firmava l’atto di erezione in ente morale della Fondazione Cavour. Poi vennero le celebrazioni di “Italia ’61”, centenario dell’Unità d’Italia.

Il manifesto del centenario cavouriano in occasione dei festeggiamenti di "Italia 61"

Se Torino, da quei festeggiamenti, vedeva trasformata finanche la propria urbanistica, era inevitabile che pure il complesso santenese fosse interessato da grandi lavori, con il riallestimento del castello in casa-museo a cura dello storico dell’arte Vittorio Viale, direttore dei Musei civici di Torino, e la costituzione del primo museo cavouriano nei locali delle scuderie, sempre a cura di Maria Avetta. Il tutto fu celebrato il 6 giugno 1961, quando a commemorare la figura del Conte venne chiamato il Presidente emerito della Repubblica, Luigi Einaudi, in una delle ultime sue uscite ufficiali (il senatore ed economista piemontese si sarebbe spento il 30 ottobre successivo). L’alto profilo culturale della Fondazione venne ribadito dal Presidente della Repubblica Antonio Segni, che ebbe a confermarla ente morale con decreto del 12 febbraio 1964.

Sono passati più di settant’anni dall’atto costitutivo della Fondazione Cavour. Santena ha conosciuto anche momenti difficili nella sua già lunga storia, ma è rimasto un punto di riferimento imprescindibile per le istituzioni e la comunità scientifica. Altri Presidenti della Repubblica sono venuti a deporre corone alla Tomba dello statista, come Carlo Azeglio Ciampi, nel 2001, e Giorgio Napolitano, nel 2010; al 6 giugno si sono poi aggiunte altre due date simboliche per Santena e l’Italia: il 17 marzo, anniversario dell’Unità; e il 20 settembre, ricorrenza della presa di Roma, con la consegna del “Premio Cavour” a persone e istituzioni distintesi nei campi della cultura, dell’arte, della scienza, dell’imprenditoria, dell’economia, dell’impegno civile e sociale. Tra gli insigniti, la Marina Militare Italiana e il Presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi. Nello spirito originario del suo istitutore, è poi proseguito l’impegno di far conoscere la figura del Conte di Cavour a tutti i livelli. Decine sono gli studiosi che hanno frequentato l’archivio storico di Santena, dichiarato di interesse nazionale; migliaia sono le persone, dai bambini delle scuole ai turisti, ai semplici cittadini, che hanno varcato i cancelli del Castello per conoscere la storia di uno dei Padri della Patria. Oltre il XXI secolo, a più di centocinquant’anni dall’Unità e dalla morte del suo artefice, la Fondazione si appresta ad affrontare nuove sfide. Il restauro del Palazzo delle Scuderie, conclusosi nel 2015, ha restituito alla comunità nazionale un importante spazio, sede della Fondazione, dell’Archivio storico, della Biblioteca Visconti Venosta, con ampi locali che hanno ospitato già una importante mostra storica sui rapporti tra Cavour e il generale Alfonso La Marmora, e, ora, la camera del Conte tornata a nuova vita dopo un complesso restauro. Intanto, al Castello è stato inaugurato il Memoriale cavouriano promosso dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri: un nuovo inizio per la Fondazione, con lo sguardo proiettato al futuro senza perdere quel ruolo di custode di una storia che affonda le radici a più di centocinquant’anni fa. Una storia che riguarda tutti noi.