di Pierangelo Gentile (Università di Torino)
Nel 1849, anno della sconfitta piemontese nella prima guerra d’indipendenza, Carlo Alberto abdicò a favore del suo primogenito, Vittorio Emanuele II, che salì al potere in un clima politico complicato. Il Parlamento del Regno di Sardegna divenne il teatro di critiche incrociate tra la Sinistra, accusata dalla Destra di aver gettato il Paese nell’abisso, e la Destra, accusata dalla Sinistra di essere strumento della reazione. Nonostante le lotte interne, le pressioni internazionali, l’occupazione del fronte orientale da parte degli austriaci e il capestro delle indennità di guerra milionarie da pagare al nemico, il re seppe mantenere salde le istituzioni, giurando sulla costituzione. Nel contesto della Penisola, il Piemonte si confermava così come terra delle libertà: un fatto che va sottolineato, alla luce anche di certe odierne disaffezioni nei confronti del processo nazionale, all’insegna di un quanto improbabile “si stava meglio quando non si stava uniti”.
Non si può non tener conto che le costituzioni furono abolite a Napoli come a Firenze; che, a Roma, la repubblica instaurata da Mazzini e difesa da Garibaldi fu abbattuta a suon di cannonate francesi e restituita al potere teocratico del pontefice; che Venezia, cinta d’assedio, fu costretta ad arrendersi agli Asburgo dopo mesi di eroica difesa, stremata dalla fame e dal colera. Cosicché centinaia di coloro che avevano combattuto volontariamente per l’idea nazionale presero la via dell’esilio, per sfuggire carcere e forche. E la meta scelta non poté che essere Torino.
Dopo un esordio difficile, con un governo presieduto da un semisconosciuto generale savoiardo, Gabriel de Launay, il potere esecutivo passò nelle mani di Massimo d’Azeglio. Con la scelta di un uomo eclettico (già noto all’epoca come scrittore e pittore) ma saldo nei princìpi moderati, Vittorio Emanuele dimostrava di voler dar fiducia ai liberali conservatori che avessero come legge la massima «niente di più, niente di meno dello Statuto».
Eletto il 15 luglio 1849 per la III legislatura, Cavour visse quei turbolenti mesi di esordio del “re galantuomo” (come era stato “battezzato” Vittorio Emanuele, che aveva mantenuto la parola data, confermando la costituzione). Si gettò anima e corpo nei lavori parlamentari, cercando, parole sue, di meritarsi il titolo «d’uomo onesto e sincero, sempre pronto a combattere le intemperanze e gli eccessi di tutti i partiti». Era quello il tempo in cui la Camera doveva esprimersi sulla firma del trattato di pace e il pagamento di 75 milioni di “danni” all’Austria. Non c’era tempo da perdere. Nonostante il governo conservatore (da Statuto i ministri erano responsabili verso il re, non verso il parlamento) i democratici, in maggioranza a Palazzo Carignano, si diedero all’ostruzionismo. Ma per salvare il Paese, Azeglio indusse il re al “Proclama di Moncalieri” (città dove, nel locale castello, risiedeva Vittorio Emanuele): il monarca, sciogliendo la riottosa Camera, invitava gli elettori a ben ponderare la scelta dei rappresentanti perché altrimenti… altrimenti – così si minacciava tra le righe del manifesto – ci sarebbe stato il rischio di dover valutare l’opportunità se mantenere o meno lo Statuto.
Le consultazioni diedero ragione al governo. Cavour non ebbe problemi a essere rieletto il 9 dicembre 1849 nella IV legislatura, attestandosi così tra gli uomini di punta di quell’area politica ormai identificata quale centro-destra (dalla posizione “geografica” assunta nell’emiciclo di Palazzo Carignano). Da quel momento in poi fu un’ascesa. Il primo successo oratorio alla Camera giunse il 7 marzo 1850, su un tema scottante. Il guardasigilli Giuseppe Siccardi aveva portato alla discussione del Parlamento la legge per l’abolizione del foro ecclesiastico. Si trattava di una questione di principio: l’articolo 24 dello Statuto non stabiliva che tutti i sudditi sardi «qualunque fosse il loro titolo o grado» erano uguali dinanzi alla legge? E dunque perché continuava a essere in esercizio il tribunale ecclesiastico che sottraeva i religiosi del Regno di Sardegna, sudditi anche loro dei Savoia, alla giustizia civile? Cavour approcciava così un tema, quello dei rapporti tra Stato e Chiesa, che sarebbe stato dirimente nella sua carriera. Lo fece in grande stile, tuonando dal suo scranno un discorso tutto incentrato sulla bontà del riformismo, poiché «le riforme, compiute a tempo, invece di indebolire l’autorità, la rafforzano; invece di crescere la forza dello spirito rivoluzionario, lo riducono all’impotenza». Fu un tripudio: lunghi e fragorosi applausi dai banchi e dalle gallerie; congratulazioni dei colleghi; strette di mano da parte dei ministri; felicitazioni degli avversari. Ancora una volta Camillo proponeva la sua ricetta per modernizzare lo Stato: non si doveva aver paura del progresso. Direzionato e calibrato dall’alto, da una classe politica illuminata, avrebbe evitato, in quel secolo, i mali di un popolo disposto a conquistare i diritti a qualsiasi prezzo, anche con il sangue. Insomma, con un gioco di parole: a essere moderati si poteva rivoluzionare il Paese. Fu quella una vittoria “granitica”, nel vero senso della parola: transitate in piazza Savoia a Torino. Al suo centro troverete un obelisco, con una scritta a caratteri cubitali: la legge è uguale per tutti. Il monumento alle leggi Siccardi. Fu il frutto della sottoscrizione di 800 comuni del regno, i cui nomi, incisi nella pietra, stavano a celebrare la forza della laicità. Cavour era dunque diventato un leader.
E un “capo” partito (anche se i partiti politici moderni, come li intendiamo noi, sarebbero nati solo a fine Ottocento) della Destra non poteva non far parte di un governo espressione di quell’area.
Dopo aver affrontato sulle sponde della Dora, in duello alla pistola, Henri Avigdor per alcuni articoli giornalistici ritenuti offensivi, per Cavour si presentò l’occasione di diventare ministro. Per la verità fu una contingenza triste: si era liberato un posto al governo per la morte improvvisa dell’amico d’infanzia, Pietro Santa Rosa, già al dicastero dell’Agricoltura, Commercio e Marina. Ma tant’è. Così, nonostante le perplessità di Vittorio Emanuele, che aveva capito tutto del carattere cavouriano, («ma come, non veggono lor signori che quell’uomo lì li manderà tutti colle gambe all’aria?»), il decreto fu firmato il 10 ottobre 1850. Camillo prese il mandato sul serio: abbandonò la direzione de “Il Risorgimento”; si dimise dal consiglio di reggenza della Banca Nazionale, cui aveva dato vita con la fusione delle banche di Torino e Genova; congelò tutti gli affari privati, che, non poca cosa, spaziavano dalla chimica all’industria molitoria, dalle assicurazioni alle ferrovie. Un bell’esempio di specchiata onestà. Abituato al duro lavoro, Camillo si dedicò anima e corpo alle nuove responsabilità: convinto che fosse necessario dare una spinta economica al Paese, si impegnò ad agevolare il libero scambio delle merci e a dotare il territorio di infrastrutture, quali porti, strade ferrate e canali. Furono così siglati numerosi trattati commerciali, con Francia, Belgio, Olanda, Svizzera, Inghilterra, Zollverein (l’unione doganale degli Stati tedeschi), Svezia, Norvegia e persino Austria.
Tra le infrastrutture sorte negli anni a venire per impulso di Cavour, vi sarebbero stati l’arsenale militare di La Spezia, la ferrovia Torino-Genova, il traforo del Frejus, il canale Cavour nel vercellese. Quel “gallo da combattimento” (come era stato ribattezzato dall’ambasciatore inglese a Torino) era destinato a portare scompiglio nel suo stesso gabinetto: aveva poca stima per il ministro delle Finanze, Giovanni Nigra. Arrivò a minacciare le dimissioni, sapendo che ormai non si poteva fare a meno di lui. Così Azeglio fu costretto a cedere, affidando, il 19 aprile 1851, il dicastero delle Finanze al Conte. Cavour aveva grandi progetti: in primis quello di liberare il regno dalla “dittatura” finanziaria dei banchieri Rothschild di Parigi, allargando la linea creditizia agli Hambro di Londra. Poi di ampliare la maggioranza: lo fece a casa dell’avvocato Michelangelo Castelli, suo amico e compagno nell’operazione, senza il consenso del primo ministro, nel febbraio 1852; siglò così il “connubio”, come venne denunciato l’accordo alla Camera da Ottavio Thaon di Revel, esponente di punta della Destra conservatrice. Una grande alleanza politica in cui il centro-destra di Cavour apriva al centro-sinistra, capitanato dall’avvocato alessandrino Urbano Rattazzi. Lo scopo? Quello di creare un blocco parlamentare al centro che isolasse una volta per tutte le ali estreme, a sinistra (i radicali) come a destra (i clericali), garantendo stabilità al Paese. Non c’è che dire: governando la Camera, Cavour aveva segnato un colpo da maestro, vincendo addirittura le riluttanze di Vittorio Emanuele nei confronti di un uomo, Rattazzi, già ministro nel 1849, considerato responsabile della disfatta di Novara.
Per il pigro Azeglio, l’elezione del “sinistrorso” Rattazzi a Presidente della Camera fu la classica goccia che fece traboccare il vaso: provocò una crisi di governo pur di liberarsi dello scomodo collaboratore. Costretto alle dimissioni, Camillo non stette a guardare: compì un ennesimo, lungo viaggio in Inghilterra e Francia allo scopo di farsi conoscere e di far conoscere le sue prospettive. Oltremanica stabilì contatti con i maggiori politici britannici, da Disraeli a Cobden, da Gladstone a Minto. A Parigi ebbe modo di farsi apprezzare da colui che avrebbe occupato la scena europea nei successivi vent’anni: Luigi Napoleone Bonaparte, nipote di cotanto zio, che, presidente della repubblica francese, aveva organizzato un bel colpo di Stato allo scopo di prepararsi la via all’impero. Il Secondo Impero di Napoleone III, appunto. Per Cavour fu una bella investitura internazionale. Così il secondo ministero Azeglio, orfano del Conte, ebbe vita brevissima, cinque mesi soltanto (maggio-ottobre 1852): cadde miseramente sulla discussione per la legge sul matrimonio civile, ancora un provvedimento contro le prerogative ecclesiastiche. Il voto del presidente del Senato, su pressione del re, stanco dei dissidi con la Chiesa, fu determinante nel far cadere la proposta, e con essa il governo. Azeglio lasciava libero il campo all’«empio rivale». Vittorio Emanuele sperò in una combinazione conservatrice che portasse ad aggiustare gli affari con Roma. Ma come fare senza Cavour? Impossibile, la sua forza politica era inarrestabile. Il 4 novembre 1852 il Conte assumeva la presidenza del Consiglio.