di Pierangelo Gentile (Università di Torino)
Dunque, ancora una volta, nel giro di pochi anni cambiava l’assetto politico dell’Europa. Abbattuto l’impero dell’“usurpatore”, come spregiativamente veniva chiamato Napoleone dai nemici, le potenze vittoriose sulla Grande Armée si erano sedute a Vienna attorno a un tavolo per decidere delle sorti del vecchio continente sotto la regia del cancelliere austriaco Metternich. Cominciava l’epoca conosciuta come “Restaurazione”. Due furono i principi a cui si uniformarono i numerosi diplomatici intervenuti nella capitale dell’impero asburgico: legittimità ed equilibrio. Legittimità significava far tornare sui loro troni i numerosi sovrani spodestati da Bonaparte; equilibrio, voleva dire creare un sistema di bilanciamento delle forze, in modo che una potenza non potesse rappresentare un pericolo per le altre, come successo nel caso della Francia rivoluzionaria. Anche l’Italia, definita da Metternich semplice “espressione geografica” in barba agli afflati patriottici emersi negli anni precedenti, fu sottoposta all’opera di “restauro”: vennero ripristinati gli antichi Stati, ma con qualche significativo aggiustamento: a nord-ovest, il Regno di Sardegna (costituito oltreché dall’isola, dal Piemonte, dalla Valle d’Aosta, dalla Savoia e dal Nizzardo), era restituito ai Savoia, con l’aggiunta della Liguria – antico possedimento della soppressa repubblica oligarchica di Genova – giusto per creare uno Stato “cuscinetto” tra gli eterni nemici, la Francia, sul cui trono erano tornati i Borbone, e l’Austria. A nord-est, a scapito dell’esistenza della gloriosa repubblica marinara di Venezia, veniva creata una nuova provincia dell’impero asburgico con capitale Milano: il regno Lombardo-Veneto. Al centro, il ducato di Parma, era dato in vitalizio a Maria Luisa d’Austria, già moglie di Napoleone ma pur sempre figlia dell’imperatore Francesco II d’Asburgo; il ducato di Modena, ritornò anch’esso nell’orbita austriaca, sotto la dinastia degli Asburgo-Este. E così fu pure per il Granducato di Toscana, sul cui trono tornò a sedere un altro ramo della casa d’Austria, gli Asburgo-Lorena. Lo Stato della Chiesa venne restituito al pontefice; al sud venne creato il Regno delle Due Sicilie, sotto i Borbone di Napoli. Altri microstati vennero ricostituiti a Massa Carrara e Lucca. Teniamo bene a mente questo variegato mosaico politico, perché grosso modo sarebbe stato quello con cui Camillo Cavour avrebbe fatto i conti tra il 1859 e il 1861. Le decisioni prese a Vienna ebbero una grave ripercussione sulla vita dei popoli; significava cancellare con un colpo di spugna la storia, riportare le lancette dell’orologio a vent’anni prima; e significava anche perdere tutti gli indubbi vantaggi che aveva portato l’epoca napoleonica in fatto di legislazione: era un bel passo indietro rinunciare ai diritti di ognuno – sanciti per legge dai codici – a favore di uno solo, il re, tale per imperscrutabile diritto divino. L’età di Bonaparte aveva poi permesso a molti di arricchirsi e far carriera, proprio come ai Cavour. Per loro fu una vera e propria sciagura il ritorno dei Savoia. Tanto più che questi si erano convinti di far piazza pulita di tutti coloro che fossero venuti a patti con l’usurpatore. Vittorio Emanuele I aveva dato il compito al suo ministro dell’Interno di richiamare a corte, calendario reale alla mano, tutti coloro che erano stati estromessi dalle cariche dopo … il 1798! Resisi conto dell’impossibilità di una tale radicale epurazione, i sovrani tesero la mano ai compromessi, spesso i sudditi migliori. Tra questi i Cavour che, poco per volta, riuscirono a recuperare il favore perduto.
E fu un favore del sovrano quello di ammettere il piccolo Camillo, di neanche dieci anni, all’Accademia militare di Torino, il 1° maggio 1820. Tanto più che per i cadetti delle famiglie aristocratiche che non volessero vivere a vita a spese del primogenito (ricordiamo ancora una volta che solo il primogenito ereditava l’intero patrimonio di famiglia), si prospettavano esclusivamente due carriere: o quella del prete o quella del soldato. Camillo, secondo tradizione, venne dunque avviato alla carriera delle armi in quell’istituto destinato a educare i giovani agli uffici della milizia, o meglio, come recitava il pomposo preambolo della regia patente con cui era stata fondata l’accademia nel 1815, «ad informare gli animi», «fino dai più teneri anni», «all’amore del retto ed a procacciare alle fisiche facoltà, mediante i ripetuti adattati esercizi, quel grado di robustezza e di pazienza delle militari fatiche, di cui vuol andare fornito il soldato». Insomma, una scuola che assicurasse alla patria ed alle famiglie la «conservazione della morale religiosa riunita all’influenza delle scienze e delle ben dirette umane cognizioni sopra ogni maniera di oneste e lodevoli costumanze». Insomma, fedeltà al Trono e all’Altare.
Come per altri cadetti destinati a diventare ufficiali di Sua Maestà, non fu facile per Camillo Cavour lasciare la famiglia in così tenera età. Ma la disciplina e la fedeltà avevano i loro tempi di maturazione. Specialmente la prima: se Camillo era benvoluto dai suoi commilitoni, sempre pronto a recitare nelle lunghe marce, rancio a portata di mano, qualche raccontino storico per far passare il tempo, non mancarono le incomprensioni con i superiori, poco inclini ad assecondare un carattere portato alla disubbidienza e renitente nel far ammenda delle proprie colpe. Tanto più quando, nominato paggio del principe di Carignano Carlo Alberto, il 9 luglio 1824, per intercessione del padre, il ragazzo avrebbe dimostrato tutta la sua riottosità nell’indossare a corte e a teatro la tipica divisa rossa “da gambero”, per lui simbolo del più bieco servilismo. Carlo Alberto non avrebbe mai perdonato a Camillo Cavour di aver storto il naso a quel segno di distinzione.

Nonostante gli esordi difficili, le preoccupazioni dei genitori per certi pensieri politici poco ortodossi maturati al fianco di qualche “testa calda” radicale, e quella voglia di rifugiarsi a Santena, dove erano radunati tutti i suoi cari parenti, il 30 luglio 1826 Cavour venne nominato sottotenente d’armata superando gli esami. Pochi mesi dopo, il 16 settembre, gettando alle ortiche la livrea da paggio, otteneva il brevetto di luogotenente nell’arma del Genio, “arma dotta” per le competenze scientifiche richieste. Convalescente da una malattia, il 12 gennaio 1827 otteneva una ulteriore promozione, venendo destinato il 10 febbraio alla Direzione del Genio di Torino.
Fu quello il periodo in cui Camillo prese coscienza dei suoi talenti: ricordate quanto nell’infanzia avesse aborrito i propri doveri di scolaro? Ebbene, scrivendo a Jean-Jacques de Sellon, lo zio idealista che si faceva portavoce a livello internazionale di una campagna per l’abolizione della pena di morte e l’istituzione della pace universale, confessava il proposito di volersi dedicare allo studio delle scienze matematiche e meccaniche, verso le quali si sentiva più portato. Ma trasferito il giovane al forte di Ventimiglia il 25 ottobre 1828, tra il gioco del lotto e qualche avventura amorosa, cominciarono ad emergere con prepotenza le sue convinzioni politiche, così antitetiche rispetto a quelle che circolavano in famiglia, nell’esercito e a corte: al fratello confessava che mai avrebbe sacrificato le sue “idee liberali”, a costo di sfidare l’ira del padre, che lo aveva minacciato di farlo morire di fame in America, e l’ambiente tradizionalista che lo aveva bollato degenere rispetto agli avi, traditore del paese e della nobiltà. Maturava già l’idea di lasciare il Genio: non sapeva ancora cosa sarebbe diventato, ma si sentiva solo «in mezzo agli elementi più diversi», e sempre più in opposizione a tutto ciò che lo circondava.
Nonostante questi cupi pensieri, Cavour continuò a svolgere il proprio dovere: prima all’imbocco dell’alta Val di Susa, al forte di Exilles, dove venne destinato il 25 febbraio 1829; poi al forte dell’Esseillon, posto a difesa della valle dell’Arc, nei pressi di Modane, dove giunse nel giugno di quell’anno. Sullo sperone di roccia a difesa del passo del Moncenisio sperimentò l’ambiente peggiore: a suo dire, tempo da cani, cucina pessima, isolamento assoluto, alloggiamenti promiscui; tutte condizioni atte a suscitargli la nostalgia della pianura santenese, calda e ricca di affetti. Arrivò a meditare persino il suicidio. Poi giunse una lettera dell’abate Frézet, a salvarlo da quello stato depressivo. L’antico precettore consigliava medicine senza controindicazioni: i giornali e i libri sarebbero stati i fedeli compagni in quella solitudine.
Camillo ascoltò il suggerimento, gettandosi a capofitto nella lettura, specialmente di opere di storia, economia, e filosofia. Autori francesi e inglesi contemporanei come Guizot, Constant e Bentham ebbero il potere, parole sue, di aprirgli gli occhi e di guarirlo dall’apatia. Ma anche la letteratura italiana contribuì ad allargare i suoi orizzonti: passi e rime di Petrarca e Manzoni avrebbero riempito pagine e pagine dei suoi quaderni; Dante, Alfieri e Foscolo mandati a memoria lo avrebbero aiutato a sentirsi meno solo. Tornò il Cavour sorridente, al fianco dell’amico William Brockedon nelle ascensioni alpine, alla ricerca di qualche scorcio che potesse ispirare l’artista inglese. Pure al suo rientro a Torino, nell’autunno 1829, patì meno “l’inferno intellettuale” tipico di una capitale chiusa e provinciale e di una casa, quella dei Cavour, frequentata prevalentemente dagli ultras, come erano identificati gli estremisti della reazione. Quando poi il 29 marzo 1830 venne trasferito alla Direzione del Genio di Genova, Camillo Cavour poté sperimentare un clima politico ben diverso, a contatto con ambienti politicamente avanzati, critici nei confronti dell’assolutismo sabaudo. Fu lì che apprese la notizia della caduta dei Borbone d’Oltralpe, con l’avvento di Luigi Filippo d’Orleans proclamato re non di Francia, ma dei Francesi dopo le tre rivoluzionarie “gloriose giornate” parigine del 27-29 luglio 1830.
Il nuovo regime era destinato a suscitare grandi aspettative in chi aveva sempre nutrito idee liberali. Cavour, dal canto suo, cominciava dunque a ragionare sulle condizioni della «misera Italia», «sempre prostrata dallo stesso sistema di oppressione civile e religiosa»; auspicava una «rigenerazione» per mano di una «ardente gioventù»; di fronte allo zio filantropo e pacifista, perorava «una guerra italiana», in cui l’Italia tornasse ad essere nazione. Troppo per un ufficiale di re Carlo Felice di Savoia, più tardi ribattezzato Carlo “Feroce” per l’accanimento mostrato contro i patrioti.
Qualcuno pensò a spegnere quegli entusiasmi; promosso luogotenente di prima classe, Cavour venne trasferito dall’effervescente Genova alla solitaria Bard, nel forte all’imbocco della Valle d’Aosta. Il Conte prendeva sempre più coscienza di non essere tagliato alla vita militare; nonostante i rimproveri della madre per essere «un uomo giovane pieno d’orgoglio», dalle idee «folli, disdicevoli, ridicole», che non voleva piegarsi ad alcun ordine, ad alcuna regola, e che avrebbe desiderato riformare tutte le consuetudini della società, Cavour, stanco di essere tacciato come «anarchico», chiese al padre il permesso di congedarsi: i gusti, il genere di studi intrapresi e la debolezza della vista gli facevano sperare una carriera «in cui fosse più tagliato». Il padre, a malincuore, accondiscese a quel desiderio. Le sue dimissioni furono accettate il 12 novembre 1831. Erano passati pochi mesi dalla salita al trono di Carlo Alberto. Usanza voleva che gli ufficiali congedati potessero nelle occasioni solenni indossare la divisa. Il sovrano concesse a Camillo Cavour l’uso dell’uniforme generica dell’armata, ma non quella del Genio in cui aveva militato. Una piccola vendetta nei confronti dell’ex paggio che anni prima si era permesso di snobbare il suo favore.