Il campione della diplomazia: Cavour, primo ministro verso l’Europa

di Pierangelo Gentile (Università di Torino)
Il primo governo Cavour fu in carica fino al 4 maggio 1855. Dunque oltre due anni, in cui il Conte poté navigare a vele spiegate sulla via del progresso, sia nel campo della creazione di infrastrutture sia della liberalizzazione dei commerci. Le elezioni per la V legislatura, che si erano tenute l’8 dicembre 1853, erano state un termometro per misurare la forza del “connubio”: l’alleanza tra centro-destra e centro-sinistra era salda più che mai. Certo, non mancarono i momenti difficili: proprio il 1853 fu un anno di crisi per il cattivo raccolto dei cereali. Il popolo torinese, furioso per il rincaro del pane, arrivò quasi sul punto di assaltare Palazzo Cavour. Una vera rivolta poi, fomentata dai clericali, era scoppiata in Valle d’Aosta. E a rendere ancora più complessa la situazione fu il dilagare, nel 1854, di una epidemia di colera. A livello internazionale invece, dopo l’ennesimo fallimento di un moto mazziniano a Milano, il Conte dovette misurarsi con le odiose ritorsioni dell’Austria, che decise per il sequestro dei beni degli esuli, compresi quelli che nel frattempo avevano acquisito la cittadinanza sarda. Cavour giudicò quell’atto «barbaramente rivoluzionario». Fu sul punto di vendicarsi stabilendo il corrispettivo sequestro dei beni austriaci in Piemonte. Poi prevalse la linea politico-diplomatica e morale, più incisiva: proteste formali, congedo dell’ambasciatore da Vienna e, specialmente, stanziamento di un sussidio di 400.000 lire a favore degli esuli lombardi colpiti dalle confische. Un generoso gesto, ulteriore dimostrazione della sensibilità di Cavour verso il movimento nazionale. Del resto, molti ormai – anche tra le fila dei democratici delusi – si erano convinti che solo il Piemonte potesse farsi promotore e sostenitore del processo di emancipazione della Penisola. Il Conte però aveva compreso che per “candidarsi” a tale ruolo era necessario entrare nel “concerto europeo”. Fino ad allora, nonostante la posizione strategica, incuneato tra Francia e Austria, il Regno di Sardegna era stato considerato potenza di second’ordine. Ora si presentava l’occasione per “mostrare i muscoli”, nel contesto della crisi determinata dall’invasione russa di Moldavia e Valacchia (l’attuale Romania), territori dell’impero turco. Spaventate dall’espansionismo dello zar, specialmente verso il Mediterraneo orientale, Francia e Gran Bretagna si coalizzarono. Cavour aderì all’alleanza: lo fece a dispetto del suo ministro degli Esteri, il generale Dabormida, che diede subito le dimissioni; lo fece nella consapevolezza di non avere alcuna garanzia reale di “guadagno” dall’apporto militare sabaudo. Cavour era pronto alla sfida. Così come era pronto a rischiare ancora una volta sul tema della laicità dello Stato. Nacque dunque la proposta di legge per abolire gli ordini contemplativi (cioè quelli che non si dedicavano all’assistenza e all’educazione) al fine di finanziare, con i beni confluiti in una cassa ecclesiastica, le pensioni dei religiosi degli enti soppressi e le congrue del clero più povero impegnato nelle parrocchie. Scoppiò una tempesta. Era lecito aspettarselo. Un gruppo di vescovi senatori, capitanato dal presule di Casale Monferrato, Luigi Nazari di Calabiana, fece la proposta di farsi carico, attraverso le diocesi, del pagamento della somma di 900.000 lire al fine di scongiurare le soppressioni. Una provocazione. Se Cavour avesse ceduto a quella mozione, tutto l’edificio liberale sarebbe andato in frantumi. Vittorio Emanuele, colpito dalle morti improvvise della madre, della moglie e del fratello, avvenute nel giro di un paio di mesi (gennaio-febbraio 1855), vaticinate in una lettera di Don Bosco, cominciò a credere nella vendetta celeste. Valutò di prestare ascolto alle tonache. Per Cavour, e per tutti i sinceri liberali, una prospettiva intollerabile. Presentò dunque le dimissioni, nel momento più critico, con la spedizione in Oriente ormai alle porte. Tutta Europa guardava con preoccupazione alla politica del Piemonte: avrebbe il re saputo governare la crisi, confermando l’indirizzo liberale? Oppure avrebbe virato bruscamente a destra per non “intristire” il Santo Padre? Grazie anche all’intervento di Azeglio, che ammonì il sovrano a non compromettere la sua fama di «re leale» per un «intrigo di frati», il 3 maggio 1855 Cavour ricevette di nuovo l’incarico. Nacque così il secondo governo del Conte, che esordì attirandosi una bella scomunica per il varo della legge sulla soppressione dei conventi. Ma era la conferma dello spirito indipendente che contraddistingueva il regno dei Savoia. Ora ci si poteva concentrare sulla guerra, il cui fronte era attestato nella lontanissima penisola di Crimea, bagnata dal Mar Nero. A cingere d’assedio la base navale russa di Sebastopoli, al fianco di inglesi, francesi e turchi, sarebbe stato un corpo di spedizione di 21.000 uomini partito da Genova al comando del generale Alfonso La Marmora.
Monumento al generale Alessandro La Marmora, fondatore del corpo dei Bersaglieri, morto durante la spedizione in Crimea, nel realizzato nel 1867 in via Cernaia a Torino dagli scultori Cassano e Dini
Cavour si era raccomandato con il comandante in capo: «Mi lusingo che troverai modo, prima che finisca la campagna, di condurre i nostri soldati al fuoco, ove faranno bella prova di loro, ne sono più che certo». A provocare caduti però fu più il colera che il fuoco nemico: quasi 2.000 soldati, tra cui il fondatore dei Bersaglieri, Alessandro La Marmora. Poi venne la prova del fuoco tanto attesa, con la battaglia sul fiume Cernaia: poche decine di morti, ma tanto coraggio. Cavour poté lodare «il contegno mirabile» dei combattenti; un eroismo che avrebbe giocato al tavolo della pace, apertosi a Parigi nel febbraio 1856. Per Cavour, quelli passati nella capitale francese furono giorni convulsi, pieni di pranzi, affari da sbrigare, persone da incontrare, sere a teatro; era deciso a portare a casa un risultato (in lista: la revoca dei sequestri, qualche ingrandimento del Regno di Sardegna, l’allontanamento dell’Austria dal Nord Italia) a qualsiasi costo, fosse anche quello di «stimolare il patriottismo della bellissima Castiglione», la cugina dalla proverbiale bellezza, affinché seducesse l’imperatore.
La sala dove si svolse il Congresso di Parigi, cui Cavour partecipò al termine del conflitto in Crimea, nel 1856
Fu nella seduta dell’8 aprile, tra le proteste dell’Austria, che finalmente si venne a trattare della questione italiana. L’Inghilterra giudicò intollerabili i governi di Roma e Napoli. La Francia, dal canto suo, si era già espressa alla fine del 1855, durante la visita a Parigi di Vittorio Emanuele II. Napoleone III si era così rivolto a Cavour: Que puis-je faire pour l’Italie? (cosa posso fare per l’Italia?). Quelle dichiarazioni e quegli intenti ponevano i problemi della Penisola all’ordine del giorno, ma Cavour tornò a Torino con le tasche vuote. Il Conte Mordeva il freno: «moderato d’opinioni», si dichiarava «piuttosto favorevole ai mezzi estremi ed audaci». Il fatto però che fosse riuscito a far riaprire il “caso Italia”, archiviato dall’epoca del congresso di Vienna, quarant’anni prima, fu giudicato un risultato eclatante, un trionfo morale senza precedenti riconosciuto a livello internazionale: Napoleone III, in segno di stima, regalò al Conte un sontuoso vaso di porcellana di Sèvres, che ancora oggi troneggia nel Castello di Santena; Vittorio Emanuele II non fu da meno, conferendo al suo primo ministro, il 29 aprile 1856, il collare della Santissima Annunziata, una delle onorificenze più prestigiose d’Europa. Ormai Cavour era assurto ad alternativa concreta nel contesto del patriottismo nazionale: mentre l’idea democratica subiva un ennesimo scacco – Pisacane con i suoi “trecento” rivoltosi massacrati a Sapri – l’idea moderata guadagnava ulteriore credito, con il sostegno della Società Nazionale Italiana: un gruppo, legalizzato in Piemonte, di ex repubblicani approdati a posizioni filo-sabaude che, grazie a finanziamenti occulti offerti dal governo cavouriano, riuscì a organizzare una rete clandestina di affiliati sparsi qua e là lungo lo Stivale, allo scopo di preparare il terreno con la propaganda a mezzo stampa. Uno dei leader dell’organizzazione, l’esule siciliano Giuseppe La Farina, divenne referente di Cavour. Gli straordinari successi diplomatici non andarono, però, di pari passo al consolidamento della politica interna. Cavour decise di mettere alla prova la tenuta del governo sciogliendo la Camera. Le elezioni indette nel novembre 1857 furono un disastro: nonostante la tenuta dei liberali, l’avanzamento delle ali estreme, specialmente dei clericali, fu sensibile. Era la fine del connubio. Rattazzi, ministro dell’Interno, fu reputato responsabile della disfatta e indotto a dimettersi. Così, se la politica interna del regno dava certi segnali, quelle estera ne dava altri. L’una stagnava; l’altra accelerava. I rapporti tra Torino e Vienna erano ai minimi storici: il governo austriaco poco gradiva che la stampa piemontese avesse promosso una sottoscrizione internazionale per dotare la cittadella di Alessandria, al confine, di cento roboanti cannoni; così come si innervosì a sapere che il ministero presieduto da Cavour aveva accettato l’offerta dei milanesi per un monumento dedicato all’alfiere dell’esercito sardo, speranza di riscatto, da erigersi nella centralissima piazza Castello. Furono però le bombe sferiche al fulminato di mercurio lanciate dal romagnolo Felici Orsini contro Napoleone III a incalzare il destino. L’imperatore uscì dalla carrozza miracolosamente illeso, l’idea democratica ancora più ammaccata. Per convincere Bonaparte sulla bontà e unicità dell’idea moderata, quelli di inizio 1858 furono mesi di intenso lavoro diplomatico per Cavour, favorito dagli incontri confidenziali tra gli emissari del Conte e di Napoleone, rispettivamente Costantino Nigra, segretario particolare del primo ministro sardo, destinato a una luminosa carriera, e il dottor Henri Conneau, medico imperiale. Napoleone decise di non stare più alla finestra: si poneva quanto prima la necessità di un intervento diretto in Italia che stroncasse una volta per tutte il focolaio rivoluzionario. Gli accordi tra Cavour e Napoleone vennero presi in gran segreto. I due si incontrarono in incognito presso la nota stazione termale di Plombières.
Un’immagine odierna della cittadina di Plombières-les-Bains, nel dipartimento dei Vosgi, Nord-Est della Francia. Nei pressi della stazione termale, Cavour ebbe l’incontro segreto con Napoleone III per porre le basi di un’alleanza: era il 21 luglio 1858
Così il 21 luglio 1858, nel corso di una gita di tre ore e mezzo su e giù per le vallate e foreste «che fanno dei Vosgi una delle zone più pittoresche della Francia» – in cui lo stesso imperatore guidava un’elegante carrozza a due sedili tirata da cavalli americani – furono gettate le basi per un’alleanza militare che avrebbe dovuto sconvolgere l’assetto geopolitico della Penisola. Non si parlava ancora di unità, ma dell’indipendenza di una confederazione italiana. Scacciati gli austriaci, al Nord si sarebbe costituito un regno dell’Alta Italia a guida sabauda, costituito da Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna; al centro, un regno assegnato alla duchessa di Parma, gradita all’imperatore, formato dalla Toscana e dalle province pontificie; al Sud i Borbone sarebbero stati sostituiti dai discendenti di Gioacchino Murat, cognato di Napoleone I, re di Napoli dal 1806 al 1815. Da Roma, sarebbe stato il papa, nominato presidente della confederazione, a vegliare sulle sorti della Penisola, a risarcimento dei territori perduti. Cavour sapeva bene che il nuovo assetto italiano, su cui gravava pesantemente la tutela francese, aveva un prezzo. E il prezzo lo fissava direttamente Napoleone: la cessione della contea di Nizza e del ducato di Savoia, province d’oltralpe del Regno di Sardegna, che avrebbe spostato il confine alle frontiere naturali, ovvero le Alpi. Ma non bastava. Il sangue avrebbe garantito l’alleanza: un bel matrimonio era l’ideale per rendere ancora più saldi i legami tra le due case regnanti. Così, al trentaseienne scapestrato Gerolamo Bonaparte, cugino dell’imperatore, era promessa in sposa la quindicenne e pia Clotilde, primogenita di Vittorio Emanuele II. Cavour si mise subito all’opera per convincere il re ad accettare le condizioni, e specialmente per persuadere la principessa a sacrificarsi alla ragion di Stato. Così, se il sovrano esitava lasciando libera in coscienza la figlia, Cavour non conosceva ostacoli di sorta sul suo cammino. A chi ripugnavano quelle nozze forzate, dichiarava senza tanti giri di parole: «Se il Re è debole, io son duro come il macigno, e per raggiungere il santo scopo che ci siamo proposti, incontrerei ben altri pericoli che l’odio di una ragazza e le ire dei cortigiani». Cavour, febbrilmente, mandò avanti le trattative per mesi. Poi, finalmente, il 30 gennaio 1859, a seguito dell’avvenuto matrimonio reale, si giunse alla firma del trattato di alleanza difensivo: la Francia sarebbe entrata in guerra a fianco del Piemonte solo se l’Austria avesse lanciato l’ultimatum; da Oltralpe sarebbe arrivato un esercito forte di duecento mila uomini, cui si sarebbe affiancato un contingente piemontese di centomila soldati; il comando supremo sarebbe stato assunto dall’imperatore; le spese di guerra sarebbero state a totale carico del Regno di Sardegna; a fronte della formazione di un Regno dell’Alta Italia, si confermava la cessione di Nizza e Savoia alla Francia. Per indurre l’Austria al passo falso, la tensione internazionale nel frattempo era salita. Napoleone III, durante il ricevimento del Capodanno del 1859, aveva provocato l’ambasciatore d’Austria, lagnandosi che i rapporti tra le due corti non fossero più cordiali come un tempo; Vittorio Emanuele II aveva fatto la sua parte pronunciando il 10 gennaio, all’apertura dei lavori parlamentari, un discorso preparato dal Conte che portava una significativa correzione di pugno dell’imperatore: la celebre frase del “grido di dolore”, che si levava da tante parti d’Italia e non lasciava insensibile il Piemonte. A Nigra, Cavour confessava che la variazione imperiale gli sembrava «cento volte più forte» di qualsiasi altra espressione: «In verità non so ancora come ne uscirò fuori. Voi farete notare […] che l’allusione alle grida di dolore produrrà un effetto immenso».