di Pierangelo Gentile (Università di Torino)
Lasciato l’esercito, Camillo Cavour si sentì libero di seguire i propri istinti politici. Si diede a frequentare assiduamente il salotto liberale dell’ambasciatore di Francia a Torino, Prosper de Barante, cercando di tirarla fino a notte fonda in conversazioni e interviste. Ci pensò però il padre a riportare il giovane alla dura realtà. Abbandonata la possibilità di una carriera (sicura) tra le armate di Sua Maestà, era necessario cercare un’altra strada che permettesse al figlio di crearsi un proprio futuro, di essere indipendente. Dopo matura riflessione, al marchese Michele venne un’idea: non erano forse i Cavour tra i più ricchi proprietari terrieri del Regno, con poderi sparsi in tutto il Piemonte? La conduzione agricola ha bisogno non solo di validi braccianti, disposti alla fatica della vita contadina, ma di persone sagaci che sappiano ben amministrare. Ebbene, che il figlio si tirasse su le maniche e andasse a misurarsi con la conduzione della tenuta di Grinzane, adagiata sulle colline delle Langhe. Voleva poi essere un protagonista? Presto detto: che facesse il sindaco del piccolo comune di 350 anime. Non sarebbe stato un problema. All’epoca non c’erano elezioni. Il sindaco veniva nominato d’autorità. Si poteva forse dir di no ai Cavour, i cui possedimenti si estendevano su più della metà dell’intero territorio comunale? Camillo fu piuttosto titubante a quelle proposte; non solo perché si trattava di lasciare le comodità, pur noiose, di Palazzo Cavour per l’austerità dal sapore medievale offerta dal castello del piccolo borgo; ma anche perché gli appariva chiaro il vero intento del padre: quello di spedirlo a oltre cento chilometri da Torino, al fine di allontanarlo dalle galliche distrazioni politiche e da certe “relazioni pericolose”, come la storia d’amore senza futuro, intrecciata sin dal soggiorno genovese, con la bella Anna Schiaffino detta Nina.


I due ebbero una tormentata quanto romantica storia d’amore all’inizio degli anni Trenta dell’Ottocento.
Pazienza che la fanciulla fosse qualche anno più vecchia. Il problema stava altrove: era pur sempre la moglie del marchese Giustiniani, e madre di famiglia. Ed era risaputo che la marchesa nutrisse idee “bizzarre”, visto che ospitava nel suo salotto carbonari e repubblicani.
Senza valide alternative, Cavour si piegò ancora una volta all’autorità paterna. Ma ai complimenti per la nomina a sindaco ricevuti dalla ricchissima marchesa Giulia Falletti di Barolo, tra le più generose benefattrici torinesi dell’Ottocento, “vicina di casa” dei Cavour per il castello di famiglia adagiato anch’esso sulle colline dell’Albese, arrivò la risposta piccata di Camillo; salvo poi pentirsi di aver usato toni impertinenti con quella nobildonna che più volte, quando era piccolo, aveva avuto la cortesia di ospitarlo nelle sue sontuose carrozze dorate, solleticando il suo amore infantile per il lusso. Arrivò una lettera di scuse, illuminante: per chi, come lui, si era gettato molto giovane nel mondo e nella politica, era facile peccare di orgoglio. C’era stato un tempo in cui aveva creduto che niente fosse al di sopra delle proprie forze, e che sarebbe stato del tutto naturale svegliarsi un bel mattino primo ministro del Regno d’Italia. Avete letto proprio bene: primo ministro del Regno d’Italia… parole sorprendentemente profetiche, destinate ad avverarsi, benché trent’anni dopo. Al momento, però, quella condizione “minima” lo prostrava. Non gli restava dunque che agire senza pensare, facendo valere la sua autorità quasi feudale sui grinzanesi, per dirimere le controversie tra prepotenti danarosi, rusticane bellezze e dongiovanni di paese; o lanciandosi in avventure romantiche, dando la caccia nei boschi, assieme ai suoi contadini, alle bande di briganti che infestavano i dintorni di Grinzane ai piedi degli Appennini; o ancora, cominciando a compiere le prime sperimentazioni agricole che lo avrebbero reso celebre, in questo caso in campo vitivinicolo, con gli innovativi metodi di affinamento del rinomato Barolo. Certo, la vita pratica non impedì a Camillo di continuare la sua riflessione politica: al cugino e scienziato ginevrino Auguste De La Rive, confessava che dopo «numerosi e violenti sussulti e oscillazioni», aveva finito per collocarsi come il pendolo nel juste-milieu (il “giusto mezzo”), ovvero tra coloro che desideravano, speravano e lavoravano con tutte le forze per l’avvento del progresso sociale, ma non al prezzo di uno sconvolgimento generale e politico. Ciò non gli impediva tuttavia di desiderare «il più presto possibile la liberazione italiana dai barbari che la opprimevano». E anche se queste parole restavano confinate nello spazio di una lettera privata, arrivavano lo stesso, per altre vie, alla polizia austriaca, che il 1° giugno 1833 emetteva una circolare con il divieto di ingresso a Cavour negli stati dell’Imperatore. Una misura precauzionale nei confronti di un giovane progressista, che metteva in discussione la presenza asburgica in Italia. Era bene non perdere di vista chicchessia, considerato che si era nel bel mezzo della congiura repubblicana scoperta in Piemonte, dove molti affiliati alla “Giovine Italia” erano disposti a perdere la libertà e persino la vita affascinati dal verbo di un avvocato genovese che aveva in odio i re, e che di nome faceva Giuseppe Mazzini. Dopo la dolorosa morte della giovane cognata Adele Lascaris (ritratta sul letto di morte in uno dei capolavori assoluti di Francesco Gonin, conservato a Santena), Camillo fece un altro viaggio a Ginevra, trovando ristoro intellettuale dai suoi parenti all’Hôtel Sellon (in rue des Granges 2, oggi sede del museo della Fondazione Zoubov), e nelle ville di campagna de La Fênetre (sempre dei de Sellon, oggi dimora del direttore generale dell’ONU), del Bocage (degli zii Clermont-Tonnerre) e di Presinge (dei cugini de La Rive). Ma, messe da parte le discussioni intellettuali, al suo ritorno nel giugno 1834, Cavour ebbe qualche ritorno di fiamma con Nina Giustianiani, testimoniato da pagine focose e romantiche del diario di Santena, non senza aver sedotto nel frattempo, alle terme di Valdieri, un’altra nobildonna maritata, Clementina Guasco di Castelletto.
Tra un senso di colpa e l’altro (chiusa la relazione, Nina si sarebbe tolta la vita), non rinunciò allo studio: assecondando i suoi interessi per l’Europa, decise, su impulso del padre, sindaco di Torino, di rielaborare un riassunto del rapporto sul pauperismo redatto dall’economista inglese William Nassau Senior. Un lavoro che conobbe un certo successo, ma anche qualche critica da parte di Cesare Balbo, per essere stato scritto in francese anziché in italiano: con le scuse del giovane, che giustificava apertamente di amare l’Italia e di voler contribuire «al suo onore e alla sua gloria, non fosse che aggiungendo una sola pietruzza all’immenso edificio della sua letteratura e delle sue scienze». Ma come fare, visto che doveva umiliarsi a confessare di conoscere poco la lingua nazionale? Forse questa cosa stupisce: ma bisogna tener conto che, all’epoca, il francese costituiva ciò che per noi oggi è l’inglese, una lingua franca internazionale; tanto più in uno Stato come il Regno di Sardegna, confinante con la Francia, dove due province, la Savoia e il Nizzardo, erano francofone. In casa Cavour, poi, come in quelle di tutta l’aristocrazia, il francese era la lingua della quotidianità. In un primo momento. Camillo sembrò decidersi per un Grand Tour della Penisola che colmasse le lacune italiane. Ma alla fine la possibilità sfumò, e intraprese nel 1835, assieme all’amico d’infanzia Pietro Santa Rosa, cugino del patriota Santorre, un grande viaggio in Francia e Inghilterra, confermando così la sua cifra di uomo europeo. Giunti a Parigi, Cavour si diede a vivere metodicamente una esperienza formativa irripetibile. Alla mattina, studio di ciò che si era visto il giorno precedente; al pomeriggio, visite a ospedali, ospizi, prigioni, scuole, stabilimenti pubblici e opifici, senza tralasciare le lezioni alla Sorbona; alla sera, divertimento e svago con la frequentazione di balli, sale da gioco, club politici, salotti, spettacoli della Comédie Française e opera al Théâtre Italien. Quella fu anche l’occasione per assistere, la prima volta in assoluto, a un dibattito parlamentare: immaginiamoci l’emozione di Camillo, seduto in un cantuccio della tribuna, ascoltare i deputati della nazione francese, con la rabbia nel cuore per il suo Piemonte che non conosceva rappresentanza politica. Venne il tempo di passare la Manica; e anche a Londra sperimentò emozioni forti, quali essere ammesso all’esclusiva Società Reale di Geografia, o mettere piede nelle manifatture del primo paese industriale al mondo, in cui non si contavano officine del gas, grandi tipografie o birrifici mossi da macchine a vapore. «Cosa straordinaria» fu per lui e il suo compagno viaggiare per la prima volta su un treno, la rail road, e compiere in un’ora e mezza i cinquanta chilometri tra Liverpool e Manchester. Camillo e Pietro visitarono l’Inghilterra e il Galles; poi fecero ritorno in Piemonte attraverso il Belgio, l’Olanda, la Germania e la Svizzera. Dopo un viaggio del genere, la vita di Camillo non poteva più essere quella di prima.
Quando il padre, Michele Cavour, divenne vicario di politica e polizia a Torino (una sorta di odierno questore), impossibilitato dunque a seguire gli affari di famiglia, Camillo fu responsabilizzato ancor di più con l’affidamento della grande tenuta di Leri, nel Vercellese, estesa per circa 900 ettari (oggi, frazione di Trino Vercellese, purtroppo in stato di grave abbandono). Al fratello, Camillo aveva scritto: «Se papà mi garantisce un modesto appannaggio, mi consacro all’amministrazione della sua fortuna e agli studi; rinuncio alla buona società e ai piaceri. Mi dedico alle occupazioni serie. Sarebbe d’altra parte un’eccellente posizione nella società. Pubblicista, filantropo, indipendente, posso prepararmi un’occupazione onorevole per l’avvenire». Si diede dunque totalmente all’agricoltura e all’amministrazione: nel 1836 compì fino a Villach, in Carinzia, un viaggio per sbrigare le pratiche relative all’acquisto e alla spedizione in Egitto di un gregge di merinos ungheresi, potendo visitare, tenuto d’occhio dalla polizia austriaca che lo giudicava «persona incorreggibile, ma ben anche pericolosissima», Trieste, Venezia, Verona e Milano; nel 1837 venne delegato dalla zia Victoire a far fruttare l’iperbolico patrimonio del defunto marito, il duca Aynard Clermont-Tonnerre, tra i più facoltosi nobili di Francia: 1500 ettari di proprietà distese tra Delfinato e Franca Contea per un valore di due milioni di franchi. Benché scherzasse dichiarando di aver rinunciato alla folle idea «di diventare uno statista» per fare il «pianta-carote» e «l’ingrassa-maiali», non aveva dimenticato i doveri verso il Regno di cui era suddito. A chi gli suggeriva di cercare fortuna altrove, scriveva: «No, no, non è sfuggendo dalla propria patria sfortunata che si può raggiungere un obiettivo glorioso. Guai a colui che abbandona con disprezzo la terra che lo ha visto nascere, che rinnega i fratelli come indegni di lui! Quanto a me, ho deciso, mai separerò la mia sorte da quella dei Piemontesi. Fortunata o sfortunata, la mia patria mi avrà per tutta la mia vita; non le sarò mai infedele, anche quando sarò sicuro di trovare brillanti destini altrove». Tra piccola patria, il Piemonte, e grande nazione, l’Italia, Camillo continuava ad avere un chiodo fisso: la politica.