Agricoltura e impresa: nuovi percorsi cavouriani all’insegna dell’innovazione

di Pierangelo Gentile (Università di Torino)

In tutto questo turbinio di lavori e riflessioni non bisogna dimenticare che Cavour, alla soglia degli anni Quaranta dell’Ottocento, restava pur sempre un giovane di neanche trent’anni. Certo, con speranze di esistenza più limitate, all’epoca si cresceva molto più in fretta di oggi: la vita rendeva responsabili, era questione di sopravvivenza, anche per chi, come Cavour, apparteneva all’alta società. Ma Camillo non poteva spegnere quell’esuberanza dei verdi anni, e l’inestinguibile voglia di apparire, di essere protagonista a tutti i costi. I frequenti soggiorni parigini per curare gli interessi della zia erano occasione unica per divertirsi, per frequentare il bel mondo radunato al Jockey-Club, ancora oggi uno dei luoghi più esclusivi della Ville Lumière. Lì, come scriveva Cavour, si giocava, si fumava, si chiacchierava, si leggevano i giornali e si pranzava; tutte attività che non potevano lasciare indifferente il cadetto piemontese, alle prese con la vita dei campi e l’amministrazione di un remoto paesino abitato da poche anime semplici. L’esperienza poi, nonostante il rigore della caserma provato sulla propria pelle, non aveva ancora insegnato sufficientemente a Camillo a moderare il proprio egocentrismo, a controllare le proprie pulsioni nel cogliere “l’attimo fuggente”, per sfuggire, in un gioco di parole, le aborrite convenzioni. Fece il passo più lungo della gamba. La voglia di provare emozioni forti e la proverbiale sicurezza in se stesso lo portarono a giocare d’azzardo: era convinto che un’operazione al ribasso sulla Borsa di Parigi, puntando sull’eventualità di un conflitto tra Francia e Inghilterra, lo avrebbe reso ricco, finalmente emancipato dai denari del padre. Le combinazioni internazionali non furono propizie alla guerra agognata; e per Camillo venne il tempo, parole sue, di un’orribile sciagura «provocata da una grave colpa». In un giorno si trovò a perdere ciò che aveva risparmiato in tre anni: 45.000 franchi, una cifra considerevole. Era disperato. Prese la penna in mano per scrivere al padre: occorreva pagare o farsi saltare le cervella.

Michele Cavour non lasciò il figlio in mezzo ai guai: pagò il dovuto, rimproverando a Camillo quella smisurata fiducia in se stesso che lo aveva portato quasi sull’orlo del baratro. Per il giovane fu una lezione di vita durissima. Deciso a non più sposarsi per i debiti morali e venali contratti con la famiglia, si lanciò ancora di più nello studio e nel lavoro: da un lato si trattava di assecondare il talento imprenditoriale prendendo parte, ad esempio, ai lavori di quella società savoiarda che era stata costituita per realizzare un servizio ferroviario e di battelli tra Chambéry e Lione, ovvero tra Regno di Sardegna e Francia; dall’altro di approfondire le conoscenze in campo economico maturate in seno alla Commissione Superiore di Statistica, di cui era membro, accettando la proposta del ministro degli Esteri di fornire all’ambasciatore inglese tutte le informazioni sulla produzione agricola del Regno. In fondo era stato presentato come «the most competent person», la persona più competente in materia. Non poco. Ma Camillo non poteva isolarsi, apparteneva pur sempre a una delle famiglie più in vista del Piemonte. Sebbene fosse stato “scottato” in società, non si chiuse caratterialmente, anzi: assieme a un gruppo di amici, soliti ritrovarsi al caffè Fiorio di Torino (ai nostri giorni ancora esistente nella sede storica di via Po), decise di fondare un club esclusivo sul modello di quelli da lui frequentati all’estero. Nacque così la Società del Whist, circolo che aveva tra i suoi scopi quello di avvicinare l’aristocrazia alla grande borghesia – da sempre classi separate dai pregiudizi – con i giochi di carte, gli scacchi, o semplicemente attraverso la lettura o la conversazione tra persone “di gentile educazione” (oggi il circolo, che si è fuso con l’Accademia Filarmonica, ha sede nel palazzo Isnardi di Caraglio in piazza San Carlo). Ci fu la partecipazione di Cavour anche a progetti filantropici, come la Società degli Asili Infantili di Torino, sodalizio che guardava con attenzione alle esigenze delle classi più umili. Si trattava di offrire non solo un luogo di custodia per i bambini dei poveri, altrimenti destinati alla strada, ma anche di formarli da un punto di vista culturale e comportamentale. Un’operazione di “ortopedia morale”, che serviva a spegnere i risentimenti degli ultimi, spesso protagonisti di quelle rivoluzioni aborrite dall’autorità costituita.

Ma nella testa di Cavour c’era specialmente l’agricoltura e la sperimentazione, condotta direttamente nei possedimenti di famiglia, dislocati sì principalmente nel Vercellese e nelle Langhe, ma anche nel Chierese, nell’Astigiano e nel Pinerolese. Gli anni Quaranta videro Cavour alle prese con ogni specie di indagine che potesse aumentare quantità e qualità dei prodotti. Specialmente la problematica della concimazione, alla base dell’economicità o meno di un’azienda, fu in cima ai suoi pensieri. Si diede a fertilizzare i campi con l’impiego di ossa animali, sangue procuratosi dai mattatoi, calce, gesso, rifiuti, stracci di lana, per arrivare poi a capire che il concime migliore era il guano, ovvero il prodotto delle deiezioni sedimentate dei volatili, di cui erano particolarmente ricche le coste del Sudamerica. Se ne fece importatore e anche commerciante.

L’etichetta di uno dei registri contabili relativi alla tenuta agricola di Leri

Poi gli venne l’idea di produrselo in casa; diede dunque avvio a una società per la fabbricazione di prodotti chimici, che non ebbe molta fortuna (chiuse dopo qualche anno), ma che fu comunque significativa, non fosse altro per l’interesse dimostrato da Camillo per la tecnologia. Tecnologia che venne messa a frutto dal Conte nella meccanizzazione, con la partecipazione a diverse imprese ingegneristiche: come un nuovo trebbiatoio per il riso a forza idraulica o animale, o l’apertura di un brillatoio per la “sbucciatura” del cereale. Ma gli esperimenti non si esaurirono lì: sulle colline di Grinzane, oltre a nuovi tipi di vitigni, provò a coltivare noci per l’estrazione dell’olio e barbabietole per lo zucchero; nelle pianure di Leri verificò la bontà di varie qualità di riso, migliorò la gelsicoltura, fondamentale per il ciclo della seta, impiantò il trifoglio per incrementare la produzione foraggera, promosse la rotazione colturale, rese vantaggiosa la praticoltura per l’allevamento del bestiame. Cavour capì anche l’importanza degli investimenti: assieme ad altri imprenditori fondò la Banca di Torino, in modo da estendere «i benefici del credito alla classe così industriosa e ricca dei coltivatori».

Questa vasta esperienza maturata sul campo rese del tutto logica la nomina di Camillo Cavour a consigliere residente dell’Associazione Agraria, fondata da re Carlo Alberto nel 1842. Seppur promosso dall’alto, nel contesto di uno Stato assoluto dove non era garantita né la libertà di parola né quella di associazione, il sodalizio fu un momento importante. Non si trattava della prestigiosa Reale Accademia di Agricoltura di Torino, fondata nel 1785, in cui, in nome della Scienza, i soci erano cooptati (e Camillo lo fu); l’Associazione era più libera e pratica, interessata ai problemi concreti della prima attività produttiva del Regno: finalmente ci si poteva riunire attorno a un tavolo, fosse anche solo per discutere di questioni agronomiche o di economia sociale; tanto (questa la convinzione di molti) da lì alla politica il passo era breve. L’Associazione Agraria divenne dunque una sorta di pre-Parlamento, in cui da subito i soci vennero a schierarsi secondo due idee ben precise: da un lato chi voleva farne non solo un centro propulsore di economia, ma anche di discussione, con la richiesta di più ampie riforme al sovrano; dall’altro chi, come Cavour, intendeva limitare gli incontri alle sole problematiche di agricoltura. Si aprì un’aspra lotta tra le due fazioni: ma ancora una volta il carattere autoritario, l’insofferenza per gli avversari e la convinzione acritica delle proprie opinioni furono fattori che giocarono a sfavore del giovane, tanto che, costretto ad abbandonare il direttivo dell’associazione, ebbe a confessare di sentirsi «membro inutile della società». Praticare «l’agricoltura su d’una gran scala» era rimasta la sua unica consolazione. Ma in tutta la delusione di un’esistenza avvertita come faticosa, rimaneva acceso in Camillo il sacro fuoco della politica e degli interessi verso l’economia. Lesse con avidità il libro dell’amico Cesare Balbo, Delle speranze d’Italia, destinato a diventare uno dei classici del Risorgimento, in cui l’autore, propugnatore di un federalismo militare e doganale tra i diversi Stati della penisola, suggeriva – nel contesto di una crisi dell’impero turco – di orientare l’Austria verso i Balcani in cambio della libertà di Lombardia e Veneto. Scrisse con foga un articolo sui vantaggi delle ferrovie nella Penisola, che non erano solo di natura materiale, ma anche spirituale, il giusto contesto dove chiamare a raccolta tutti coloro che desideravano con ardore l’emancipazione d’Italia, proclamando un imperativo categorico: «Devono sparire e devono tacere tutti gli interessi particolari, non solo per vedere la nostra patria gloriosa e potente, ma soprattutto perché possa elevarsi nella scala dell’intelligenza e dello sviluppo morale sino al livello delle nazioni più civilizzate». Non si era lontani ormai da quella “primavera dei popoli” che avrebbe sconvolto gli assetti europei nel 1848; ancora oggi si sente dire «è successo un Quarantotto» per indicare un caos improvviso, un tumulto generale, uno sconvolgimento inatteso.