«Il Risorgimento», Anno II, numero 357 del 21 febbraio 1849
Dopo avere esaminata la quistione dell’opportunità della guerra rispetto alle condizioni dell’impero d’Austria, convien ora considerarla in relazione alle potenze che maggiormente possono influire sulle nostre sorti, le potenze mediatrici, Francia ed Inghilterra.
La politica inglese non ha sofferto in questi ultimi mesi mutazioni di sorta. Gli uomini che la dirigono mirano sempre ad un medesimo scopo, quello cioè di mantenere la pace, di allontanare ogni eventualità che suscitar possa una guerra europea. Costante nelle sue mire, il Gabinetto di Londra adopera vari mezzi, e modifica il suo contegno a seconda del variare delle vicende politiche. La sua influenza si esercita specialmente su quella tra le parti belligeranti ch’esso reputa momentaneamente in circostanze più difficili, onde deciderla ad acconsentire a condizioni accette alla parte che ha il sopravvento.
Mentre le nostre armi erano vittoriose sui campi lombardi, lord Palmerston esortava l’Austria alle più larghe concessioni in favore del Lombardo-Veneto. Quando giunse a Londra la notizia dei primi nostri disastri, incerto ancora delle disposizioni alla guerra od alla pace, egli aderí alla proposta di una mediazione fondata sopra basi ch’ei riputava onorevoli pel Piemonte, e non ripugnanti all’Austria. Ma quando non poté più dubitare delle disposizioni pacifiche del generale Cavaignac e del Governo francese, allorché ei ci riputò del tutto prostrati di forze militari e di mezzi finanziari, esso si dimostrò assai men tenero delle condizioni della proposta mediazione, ed invece di predicare le concessioni all’Austria, la principale sua cura fu di inculcarci massime di rassegnazione, onde condurci ad accettare la pace.
Tale fu la politica del Ministero inglese; tale continuerà ad essere in ordine alla quistione italiana, perché essa non emerge dai sentimenti e dalle opinioni di un uomo di Stato o di un partito, ma perché essa è strettamente conforme ai veri e stabili interessi dell’Inghilterra, che sono la guida costante dei ministri whig e tory, conservatori e liberali di quella gran nazione.
È dunque innegabile essere il contegno della diplomazia inglese meno a noi favorevole che nol fosse nel mese di giugno dopo la battaglia di Goito, che nol fosse al principio di agosto, quando era dubbioso l’intervento armato della Francia, epoca in cui le spade di Windischgraetz e di Jellachich non avevano ancor rassodato il trono imperiale. Ma lo è per lo meno altrettanto che in novembre, se non più, giacché da quell’epoca le nostre forze sono cresciute, mentre non puossi dire altrettanto di quelle dell’Austria.
Se manifestiamo il fermo proposito di rompere la guerra, l’Inghilterra cercherà a distogliercene coi consigli e le proteste. Ma se le nostre armi tornano vittoriose, se volgendo in fuga i tedeschi sapremo riconquistare le sponde del Mincio e dell’Adige, lord Palmerston muterà linguaggio, e si adoprerà a tutta possa onde far convinta la Corte di Vienna della necessità di abbandonare le provincie italiane, inesauribil sorgente di rivoluzioni e di guerre. Quindi conchiuderemo con dire che dalla politica inglese non puossí trarre argomento né pro né contro l’opportunità della guerra, giacché essa si manifesterà più in un senso che in un altro a seconda dell’esito che avrà. Se altre considerazioni ci persuadono della necessità di combattere, della probabilità del vincere, allora possiamo calcolare sull’appoggio dell’Inghilterra, possiamo essere certi che si unirà a noi per condurre l’Austria a calare a patti giusti ed onorevoli per l’Italia.
In ordine alla Francia, noi confessiamo schiettamente che le speranze che la quasi certa caduta del generale Cavaignac ci faceva concepire nello scorso autunno, non si sono avverate. Noi sapevamo che il generale Cavaignac ed il suo ministro, il sig. Bastide, rimasti in stretta relazione col partito repubblicano italiano, erano poco favorevoli al Piemonte, al regno dell’Alta Italia, al re Carlo Alberto; quindi pensavamo che molto avremmo guadagnato quando fossero stati surrogati al potere da uomini i cui principi non fossero cotanto ostili alle nostre istituzioni politiche. Noi ci lusingavamo che la politica del nipote del primo guerriero del secolo sarebbe stata più risoluta, più audace, men pacifica di quella del suo rivale al seggio presidenziale.
Giudicando dalle sole apparenze, ci si può con ragione rimproverare l’erroneità delle nostre previsioni, giacché il linguaggio del sig. Odilon Barrot sulle cose d’Italia non si differenzia in nulla da quello de’ suoi predecessori in ufficio, se non che talvolta veste forme ancora più caute e men bellicose.
Ciò nullameno non crediamo esserci del tutto ingannati, e siamo fermi nel pensare che la caduta di Cavaignac fu utile all’Italia, e che la politica del Governo attuale della Francia deve necessariamente svolgersi in un senso a noi favorevole, e che il suo contegno attuale è dovuto a cause accidentali e transitorie, che essendo per scomparire lascieranno libera la Francia di spiegarsi in un modo conforme alla sua dignità, ai nobili suoi istinti, ed ai suoi veri interessi.
Per porre in luce la verità di questa nostra opinione, è mestieri di entrare in qualche particolare nell’esame delle condizioni interne della nostra potente vicina.
Il gran fatto del 10 dicembre, l’elezione ad immensa maggioranza di voti del candidato del partito dell’ordine e della moderazione al seggio presidenziale, pareva dover operare un completo e salutare cambiamento nelle condizioni interne della Francia, col costituire su basi saldissime un potere che non avrebbe durato fatica a spegnere i germi d’anarchia e di disordine che da un anno travagliano miseramente quel paese. Questo risultamento non fu raggiunto che in parte; perché l’instaurazione del nuovo presidente non trasse seco lo scioglimento dell’Assemblea costituente, rimasta investita di mal definiti poteri in forza del decreto sulle leggi organiche. Non già che la maggioranza di quest’assemblea sia fautrice delle idee di disordine, dei principi d’anarchia: essa gli ha combattuti con troppo vigore quando parevano prossimi a trionfare, onde si possa fondatamente muovere contro essa tale accusa; ma solo perché avendo un’origine diversa da quella del potere esecutivo, essendo animata da simpatie personali a questo opposte, doveva di necessità assumere, rispetto ad esso, un contegno di sospetto, di diffidenza, d’apparente ostilità.
Questo deplorabile contrasto fra il potere esecutivo ed il potere legislativo fece sì che il presidente non poté ancora compiere pienamente il suo speciale mandato, quello cioè di rassodare le basi dell’edifizio sociale. La gelosia dell’Assemblea incagliando le determinazioni energiche del Ministero, è causa che il paese non venne ancora posto pienamente al riparo dei colpi di coloro che mirano ad operare uno sconvolgimento più tremendo, più spaventevole di qualunque la storia abbia serbato memoria. I club sono rimasti aperti, i socialisti non hanno desistito dai loro disgustosi banchetti. Da quei focolari di torbidi e di tempeste si fanno di continuo udire voci passionate, che minacciano nuove rivoluzioni, nuovi combattimenti civili; e queste voci sinistre, ripetute nel seno stesso dell’Assemblea costituente dai membri della così detta Montagna, mantengono gli animi in uno stato d’inquietudine e d’agitazione, fatale allo ristabilimento dell’interna tranquillità, dell’equilibrio economico, che costituisce in ora il principale, il più ardente desiderio dell’universalità dei buoni cittadini.
Questo stato deplorabile di cose va emendandosi ogni giorno, ma non cesserà del tutto se non quando una nuova assemblea legislativa, vera espressione dei sentimenti della Francia, si adoprerà francamente e risolutamente assieme al potere esecutivo, onde spegnere ogni germe di futuro sconvolgimento, disarmare le fazioni estreme ed antisociali, e ridurle all’impossibilità assoluta di turbare la pace pubblica.
Sin allora pur troppo le principali preoccupazioni dell’opinione pubblica in Francia saranno rivolte alle questioni interne, sino allora gli uomini di Stato e gli uomini di spada penseranno assai più a provvedere alle eventualità della guerra civile, che a mantenere all’estero una politica energica e dignitosa che potrebbe suscitare una guerra europea.
Ma quest’epoca così desiderata non è più, grazie al cielo, né incerta né lontana. Dopo lunghe esitazioni, l’Assemblea costituente ha finalmente segnato il termine della sua già troppo protratta esistenza. Coll’adottare la proposizione Lanjuinais, essa ci ha fatti certi che fra pochi mesi, sul finire d’aprile od al cominciare del maggio, la Francia si troverà in condizioni normali.
In allora, noi nutriamo ferma speranza, la condotta di Luigi Napoleone muterà pienamente d’aspetto. Assicurata la pace interna, fatte tacere le fazioni sovvertitrici, esso certamente vorrà rassodate i nuovi ordinamenti francesi mercé una politica dignitosa, generosa, conforme ai veri, ai duraturi istinti della nobile nazione francese. Ci rifugge dal supporre che gli uomini illuminati e veramente liberali che costituiscono il Gabinetto di Parigi cadano nel medesimo fatale errore che fu la cagione prima della catastrofe del trono di Luglio: quello cioè di credere che si possa governare stabilmente in Francia col promuovere unicamente lo svolgimento degli interessi materiali, senza dare alla politica esterna un indirizzo quale si conviene ad un paese potente, illuminato, altamente vanitoso ed ambizioso. Il Governo che lasciasse opprimere l’Italia, che negasse ogni simpatia ai suoi generosi sforzi per riconquistare la sua indipendenza, che consentisse all’indefinito l’oppressione della Lombardia e della Venezia, che vedesse, senza muoversi, senza varcare le Alpi, il Ticino valicato dalle legioni austriache, quel Governo, tollerato forse finché vivissima durasse la tema delle rivoluzioni sociali, cadrebbe però presto sotto il disprezzo di tutti i cuori generosi, che costituiscono la maggioranza della nazione francese.
Convinti di questa verità, ripetiamo che ad onta del linguaggio attuale della diplomazia francese, la simpatia, gli aiuti di quel Governo non ci falliranno al momento della gran lotta. Ma onde ciò avvenga, onde questa simpatia e questi aiuti riescano efficaci, è d’uopo che l’opinione pubblica in Francia si mantenga, o per dir meglio torni ad essere a noi favorevole.
E per ciò due condizioni sono necessarie, indispensabili. Vuolsi dapprima che nella prossima campagna l’onore delle nostre armi si accresca, splenda luminosamente; è quindi necessario che il Piemonte dia chiaramente a divedere che s’egli combatte per l’indipendenza e la libertà, non è per far trionfare nel suo seno la demagogia e l’anarchia, conculcate oramai in tutte le altre contrade d’Europa.
Non conviene illuderci sul primo punto. La nostra condotta nell’ultima guerra venne severamente, ingiustamente giudicata. I tristi suoi risultati hanno indotto molti a credere che non eravamo in grado di sostenere una seria lotta con l’Austria. Ad onta del valore mirabile dei nostri soldati, si è ripetuto in tutti i Gabinetti d’Europa che noi non avevamo un esercito tale che potesse reggere a fronte delle vecchie legioni capitanate da Radetzky. La simpatia eccitata dalle prime ed ardimentose nostre imprese venne poco a poco scemando dopo i disastri di Custoza ed i tristi eventi di Milano.
E come potremo noi stupirci di questo sfavorevole cambiamento, come lagnarci della severità dei forestieri quando italiani stessi, acciecati dallo spirito di parte, dalla rabbia repubblicana, sono andati spargendo in tutta Europa infami calunnie, atroci contumelie contro la nazione piemontese, contro il suo esercito, il suo Re? Come mai potrebbero gli altri popoli avere per noi stima ed affetto, quando noi stessi ci accusiamo a vicenda, ci laceriamo con accanimento; quando il lombardo accusa il piemontese di municipalismo, ed il piemontese rimprovera al lombardo il difetto d’energia e di spiriti militari?
Ma i tristi effetti cagionati dalle nostre dissensioni e dalle malvagità del partito repubblicano possono facilmente ripararsi. Per ciò basta che sui campi il nostro esercito, guidato da capi esperti, dia tali prove del suo valore da condannar al silenzio i vili suoi calunniatori. Alcune gesta gloriose, una sola splendida vittoria, e l’Europa tutta riconoscerà che, ad onta dei passati disastri, i soldati piernontesi sono tuttora quali li dichiarava essere il primo capitano del secolo, l’imperatore Napoleone, prodi, risoluti, costanti al pari delle più agguerrite truppe d’Europa.
La Francia, facile a giudizi severi, è troppo generosa per non ricredersi a fronte dell’evidenza. Essa fu sempre amica dei generosi, e ci sarà larga di nuovo della sua stima, delle sue simpatie se sapremo sui campi di Lombardia, con splendide azioni, dimostrare l’ingiustizia delle calunnie che hanno oscurata la nostra fama.
Ma ad ottenere il valido appoggio della Francia nella gran lotta che siamo per intraprendere non basta dimostrarsi soldati valorosi, conviene ancora farla certa che il nostro paese non intende di diventare un fomite di passioni anarchiche e demagogiche.
In questi tempi la passione principale che anima la maggiorità dei francesi è l’amore dell’ordine, l’odio delle idee sovvertitrici. Questo è un fatto che non può venir posto in dubbio se non da quei ciechi fanatici che credono ed annunziano il prossimo trionfo del gran Ledru-Rollin. Tutti coloro che studiano attentamente lo svolgersi degli eventi, tutti coloro che ritornano d’oltre Alpi, sono unanimi nel confermarlo.
Quindi è che condizione indispensabile alla simpatia della Francia, e per ciò dell’opportunità della guerra, si è che il nostro Governo, resista energicamente allo spirito di disordine che si è impadronito di Roma e di Toscana. Ch’ei ricusi ogni transazione colle idee mazziniane, coi principi che prevalgono nell’Italia centrale. Guai a noi, se Carlo Alberto ed i suoi ministri si lasciassero trascinare nella via fatale in cui rovinarono Pio IX e Leopoldo! L’Italia sarebbe perduta, e perduta per sempre. Indeboliti dalla discordia, dalle lotte intestine, avremmo non solo a contrastare contro le forze materiali dell’Austria, ma altresì contro la reprobazione morale di tutti gli altri popoli d’Europa.
Noi speriamo che di tale verità Vincenzo Gioberti sia oramai pienamente convinto. Lo possiamo almeno argomentare dalle eloquenti sue parole. Nel suo programma, nei suoi discorsi, mostrandosi nemico irreconciliabile dell’anarchia e del disordine, ricusando di associare l’illustre suo nome a quello dei Guerrazzi e dei Mazzini, esso ha forse salvato il Piemonte e l’Italia dall’ultima rovina. Proseguendo in questa via, esso può senza soverchia imprudenza pronunciare la tremenda parola di guerra, perché così mantenendoci propizia la Francia, egli può coscienziosamente pronunciare essere opportuna la guerra.
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