«Il Risorgimento», Anno II, numero 355 del 19 febbraio 1849
Negli ultimi mesi dell’anno scorso, finché durò il ministero Pinelli, i fautori della sua politica proclamarono mai sempre, sia nel seno del Parlamento, che nelle colonne dei fogli quotidiani, doversi più che ad ogni altra cosa pensare a ricominciare le ostilità, a rompere l’armistizio, a sciogliere colle armi il nodo gordiano della questione italiana; ma doversi pure procedere con assennatezza, evitare un atto soverchiamente arrischiato ed imprudente: aspettare, in una parola, che le circostanze interne ed esterne del paese concorressero a rendere evidente l’opportunità della guerra.
Così dimostrarono più volte coi ragionamenti e coi fatti, con considerazioni politiche ed argomenti militari che in allora questa opportunità era lungi dall’esistere; che il lasciarsi strascinare dal generoso sentimento che spingeva la nazione ad intraprendere senza indugio il riscatto dell’oppressa Lombardia, sarebbe stato un funesto errore, una determinazione fatale, da compromettere per secoli la sacra causa dell’indipendenza italiana.
La verità di questi consigli di una savia ed illuminata politica benché sieno stati indegnamente travisati e calunniati, benché sieno stati per chi ardiva sostenerli argomento di universale impopolarità, e diremo quasi di politica proscrizione, vennero però pienamente dimostrati dagli eventi succeduti, e dalla loro [sic] e più ancora dalla condotta stessa di coloro che li contrastavano mentre sedevano sui banchi dell’opposizione. Infatti il ministero Gioberti, appena assunto al potere, dichiarava senza ambagi non già ch’egli avrebbe aspettato l’opportunità per rompere la guerra (ciò che sarebbe stato un ripetere letteralmente i discorsi de’ suoi predecessori), ma che non si sarebbe lasciato trascinare ad una guerra imprudente, ciò che era esprimere con diverse parole il concetto del ministero Pinelliano. I fatti furono concordi a questo giudicioso programma. La guerra che Pinelli dichiarava inopportuna in ottobre ed in novembre, Gioberti la riconobbe tale in dicembre, in gennaio e ben anche in febbraio.
Ora, è vero, si comincia a parlare sul serio della denunzia dell’armistizio, ed è oramai certo che nell’imminente marzo il nostro esercito celebrerà sui campi lombardi il glorioso anniversario delle cinque giornate, dell’atto magnanimo col quale il re Carlo Alberto affrontava solo, varcando il Ticino, la potenza austriaca.
Ma ciò, a nostro credere, non distrugge quanto abbiamo accennato; prova al contrario che l’ora dell’opportunità prevista, annunciata da tanto tempo dai nostri amici politici sta per suonare; prova che il generale La Marmora aveva altamente ragione, quando dichiarava quasi apertamente, che prima del giungere della primavera egli sperava cambiare il portafoglio del ministro col brando del soldato.
Sì: consentanei alle massime della nostra politica, noi siamo convinti che quell’opportunità che non riputavamo esistere nei trascorsi mesi, si manifesta ogni giorno più pienamente, e che l’istante è prossimo in cui non solo l’onore offeso, l’umanità oltraggiata, la patria oppressa ci muoveranno a dar di piglio alle armi; ma in cui quest’atto solenne sarà riconosciuto conforme ai dettami della vera politica e sarà consigliato dai più severi uomini di Stato avvezzi ad ascoltare la voce della ragione più di quella delle passioni, comunque generose e leali.
Questo nostro convincimento riposa sull’attento esame, sull’imparziale analisi delle attuali condizioni interne ed esterne del paese, su considerazioni politiche e militari che ci paiono incontrastabili. Desiderosi quindi di far dividere ai nostri lettori quest’opinione, di persuadere al paese, agli audaci come ai cauti, che la voce della prudenza, non meno che quella dell’onore, ci chiamano a tentare nuovamente la sorte delle armi, ci faremo a trattare questo gravissimo argomento, svolgendolo con ogni studio per quanto lo comportino le deboli nostre forze.
Lo stato della politica esterna, abbiamo detto, consiglia la guerra. Per provarlo esamineremo successivamente le nostre relazioni colle varie potenze europee, cominciando dall’Austria, come quella le cui condizioni più importano al caso.
Quest’autunno, mentre ferveva l’insurrezione viennese, l’opposizione eccitava il Ministero a ricominciare senza indugio la guerra, come se l’Austria fosse in allora ridotta a tali estremi, che facile impresa dovesse riuscire il cacciarla d’Italia. Noi combattevamo tale proposizione, asseverando che le vittorie di Windisgraetz non varrebbero a consolidare il trono dell’imperatore, a spegnere i germi di distruzione che racchiudeva l’impero. Che l’opera del tempo, lungi dall’esserci sfavorevole, avrebbe anzi peggiorato le condizioni dell’impero, e che pochi mesi avrebbero bastato per porgerci occasione di combatterlo più propizia, che allora quando le vittoriose sue schiere sottomettevano i rivoltosi viennesi. Gli eventi furono conformi a questi nostri pronostici.
Molti, abbagliati dalle straordinarie fortune del Governo imperiale, pensarono che le armi vittoriose di Windisgraetz e di Jellachich avessero a rassodare sopra basi durature l’edifizio vetusto dell’impero austriaco, ed a farlo risorgere il più potente e più vigoroso dominatore dell’Europa centrale. Un tal fatto avrebbe potuto per avventura avverarsi, se i consiglieri di Ferdinando fossero stati uomini di genio, capaci di anticipare sull’avvenire e di governare, assecondando il moto fatale che irresistibilmente spinge i popoli nelle vie della civiltà. Se essi, con determinazione ardimentosa, avessero in certo modo sgermanizzato l’impero, trasformandolo in impero slavo, forse sorti gloriose e grandi si aprivano per la casa di Lorena.
L’èra della razza slava è prossima: dopo avere sopportati secoli di servitù e d’oppressione, essa pure chiede con invincibile energia di essere ammessa a godere dei beni della libertà, dell’indipendenza e della civiltà. Questi beni, a cui ha incontrastabili diritti, essa li otterrà senza fallo, prima che finisca il presente secolo, e quell’uomo, e quel Governo cui verrà dato di costituire lo slavismo dell’Europa centrale sopra i principi di libertà, d’indipendenza, di nazionalità, sarà forse il più gran genio del nostro secolo.
Ma ad adempiere sì gloriosa missione ci volevano bene altri uomini che i discepoli di Metternich, quali Schwarzenberg e Stadion, i nuovi capi del gabinetto di Ollmutz. Questi, benché fosse evidente che all’aiuto dei soli slavi fosse dovuta la salute dell’impero, non vollero rinunziare alle tradizioni germaniche e staccarsi affatto dall’Assemblea di Francoforte.
Essi adottarono una via di mezzo, e cercarono di conciliare quel che era inconciliabile, l’emancipazione degli slavi col predominio dell’elemento germanico.
Come era da aspettarsi il Governo imperiale fallì del pari nei due scopi che si proponeva raggiungere. Non riuscì a rimanere parte principale dell’impero germanico, e si alienò l’animo degli slavi.
Forse ei faceva fondamento, per ciò che riflette le sue relazioni con Francoforte, sull’influenza del vicario imperiale, principe austriaco, e sul suo primo ministro, il sig. Schmerling, uno dei principali fautori degl’interessi dell’Austria.
Ma questo calcolo andò fallito. Invano Schmerling tentò di sviare la Dieta dalla via cui batteva per giungere a costruire un’unità germanica, onde ricomporre una nuova confederazione, di cui l’Austria avrebbe costituito la parte principale. La Dieta, accortasi delle tendenze dell’austriaco ministro, gli negò il suo concorso e costrinse il vicario imperiale a surrogarlo col signor Gagern, unitario deciso, ligio alle mene ambiziose della Prussia.
Il cambiamento del Ministero di Francoforte diede origine al dissidio che ogni giorno si aggrava fra l’Austria e la Dieta. Il Gabinetto d’Ollmutz non vuole un potere centrale supremo, sia esso ereditario od elettivo; vuole rispettata l’indipendenza e l’autonomia dei singoli Stati della Germania; esso vuole al postutto ricostituire l’antica confederazione germanica, con qualche modificazione più apparente che reale.
Questa politica, chiaramente manifestata nell’ultima nota data al potere centrale dal principe di Schwarzenberg, deve necessariamente condurre ad un’aperta rottura fra l’Austria e la Dieta. Questa, espressamente eletta per dar soddisfazione al principio d’unità che ferve in tutti i cervelli germanici, cadrebbe nel ridicolo e nel disprezzo se aderisse menomamente alle proposizioni del Gabinetto imperiale. La Dieta doveva respingerle, come fece, nel modo più assoluto, e assumere rimpetto all’Austria un contegno diremmo quasi ostile.
Quest’ostilità è per noi cosa di sommo rilievo; è noto a tutti coloro che hanno meditato sui tristi casi dell’ultima guerra, quanto sia stato valido ed efficace l’appoggio che l’Austria ricavò dall’Assemblea di Francoforte. Senza volere tener calcolo dei sussidi materiali somministrati all’esercito di Radetzky dalla Baviera e dal Wurtemberg, si può asserire che l’influenza della Confederazione germanica ebbe gran parte nelle nostre disgrazie.
A conferma di questa asserzione basta ricordare le minaccie scagliate dal potere centrale, quando si tentò, per parte del Governo provvisorio di Milano, di favorire l’insurrezione del Tirolo italiano, e quando venne ordinato dai poco avveduti nostri ministri il mal consigliato blocco di Trieste. Queste minaccie non rimasero sterili, giacché è incontrastabile che l’intera Confederazione adoprò a nostro danno nei consigli della diplomazia europea per quant’influenza gli fu dato di esercitare sovr’essa.
Se la Francia si dimostrò così fiacca, così restia ad accordarci il più volte promesso soccorso della sua spada, se l’Inghilterra operò in favore dell’Alta Italia più rimessamente che nol fece per la Sicilia, ciò deve ripetersi non tanto dai riguardi di queste due potenze per l’in allora cotanto travagliato impero austriaco, quanto dalle energiche proteste del nuovo potere testé sorto a Francoforte.
Infatti quando si rimproverava nel seno dell’Assemblea nazionale al Ministero francese di non spedire oltre le Alpi un esercito in sussidio della conculcata nazionalità italiana, esso si scusava dicendo che per combattere l’Austria non bastava mandare 100.000 uomini in Lombardia, ma bisognava altresì tenere in pronto 200.000 uomini sul Reno.
Quest’ostacolo tanto grave non esiste più. Lo stato di quasi ostilità della Dieta col Gabinetto d’Ollmutz ci fa sicuri che nella bilancia europea l’influenza austriaca non sarà avvalorata dal peso di quella dell’intera Confederazione. La guerra combattuta sul Po anche dalla Francia non trae più come ineluttabile conseguenza la guerra sul Reno, onde crediamo assai più probabile l’intervento di quella potenza quand’esso non debba più necessariamente dar luogo al pericolo di una guerra europea.
Questo cambiamento radicale nelle relazioni dell’Austria colla rimanente Germania pare a noi, che non professiamo per la diplomazia e la politica quel superbo disprezzo che anima parecchi dei nostri avversari, sommamente favorevole alla causa italiana. Lo crediamo tale da rendere in ora la guerra assai più opportuna che nol fosse alcuni mesi addietro.
Né dicasi per combattere questo argomento che sin dall’assedio di Vienna l’indicata rottura dell’Austria colla Germania era operata, che ciò sarebbe un errore storico.
Fintantoché il signor Schmerling rimase al potere, il ministro imperiale serbò amichevoli rapporti colla Dieta di Francoforte, e se in allora fossero di nuovo scoppiate le ostilità in Italia, gli sarebbe stato facile rimandare la soluzione definitiva della costituzione del potere centrale a guerra finita, onde continuare a valersi a danno nostro dell’influenza della Confederazione.
Il Governo imperiale, benché condotto dalla necessità della sua condizione ad assumere un contegno ostile alla Dieta di Francoforte, non seppe però rompere col passato, rigettare le tradizioni germaniche e dare piena soddisfazione alla razza slava. Il ministero diretto da due tedeschi, Schwarzenberg e Stadion, proclamò bensì la completa eguaglianza delle razze sparse sul suolo dell’impero; ma nulla fece per riunire, consolidare, dar vita alle membra divise della grande famiglia slava, che aspirano con energica volontà a costituire una forte e potente nazionalità. Gli slavi si reputarono non bastantemente rimeritati degl’immensi servigi resi all’imperatore. Essi gli avevano salvata la corona, riconquistato il potere, credevano quindi essere in diritto di dettare le leggi dell’impero. Delusi in queste speranze, il loro malcontento non tardò a manifestarsi apertamente. Nell’Assemblea di Kremsier i deputati slavi si accostarono a poco a poco ai deputati dell’opposizione. E gli stessi deputati boemi che a Vienna avevano date tante prove della loro devozione all’imperatore, diedero a divedere quanto profonda fosse la ferita fatta ai loro sentimenti nazionali.
Il malcontento slavo non è racchiuso soltanto nel seno della Costituente austriaca; esso appare in tutte le provincie dell’impero. Praga, capitale in certo modo intellettuale dello slavismo, s’agita e tumultua nella lontana Croazia: le assemblee locali richieggono ogni giorno in modo più imperioso nuove concessioni dal Gabinetto imperiale. Ma ciò che più importa al caso nostro si è che questo spirito di malumore pare serpeggiare nelle file stesse dell’esercito. Questo almeno puossi argomentare da molti fatti parziali, ma specialmente dal vedere il celebre bano Jellachich, l’idolo dei soldati slavi, nominato al lontano governo della Dalmazia ed allontanato dall’esercito attivo.
Avevamo dunque ragione di dire quest’autunno che il Governo imperiale, quantunque vittorioso momentaneamente dei suoi nemici, portava in seno un germe di distruzione che fra poco si sarebbe gagliardamente sviluppato. Pochi mesi han bastato a verificare questa sentenza. ed a mutare la devozione e l’entusiasmo degli slavi in un mal represso malcontento. Invece di avere a combattere popoli animati dall’ardente desiderio di riconquistare la loro nazionalità, non avremo più a fronte che un potere che si sorregge solo colla compressione e colla forza; che è costretto a mantenere lo stato d’assedio del pari nella slava Gallizia, come in Vienna, capitale delle provincie germaniche.
Finalmente la guerra ungarica, cominciata con favorevoli auspici per l’Austria, pare ora volgersi in senso contrario. Battuti dapprima e respinti, i magiari si dimostrano disposti a difendere energicamente l’invaso loro territorio. Essi ci facevano avvertiti che la vera guerra non comincierebbe per loro se non nella primavera; vogliono essere fedeli alle loro parole; onde possiam dire essere giunti al punto in cui l’Ungheria aiuterà potentemente la causa italiana.
Noi nutriamo ferma fiducia che i magiari sieno per opporre all’Austria una lunga resistenza. E ciò non solo per le valorosamente combattute battaglie; ma altresì perché ci sembra scorgere segni di riconciliazione fra essi e gli slavi.
Ciò argomentiamo dacché la Galizia slava dà prove manifeste di simpatia alla causa ungarese, dal vedere rall
ntarsi la guerra sulle frontiere croate, ed affidato il comando delle truppe magiare quasi esclusivamente a generali polacchi.
La riconciliazione dei magiari e degli slavi sarebbe un colpo fatale all’impero austriaco; sarebbe l’ultima rovina di quel gotico edifizio composto di tanti elementi eterogenei e discordi. Noi non possiamo annunziare come certo un evento che sarebbe cotanto favorevole per l’Italia, ma lo crediamo possibile; e ciò basta per rianimare le nostre speranze, per farci considerare come men problematico l’esito della lotta che siamo per intraprendere col colosso austriaco.
Qualunque sia dunque il fondamento dell’ipotesi che abbiamo posto per ultimo in campo, rimane provato che giammai fuvvi diversione più favorevole all’Italia della guerra che ora si combatte in Ungheria, e che perciò anco da questo lato l’opportunità di ricominciare la pugna si fa ogni giorno più manifesta.
Dal sin qui detto crediamo che chiaramente risulti essere le attuali condizioni dell’Austria più favorevoli alla nostra causa che nol sieno mai state per lo passato, e quindi essere, per ciò che riflette lo stato del potente nostro nemico, oramai suonata l’ora dell’opportunità della guerra.
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