[Prestiti e commercio. L’industria serica] [1]

15 Aprile 1848

«Il Risorgimento», Anno I, numero 94 del 15 aprile 1848

[1]

Negli anni scorsi le casse pubbliche racchiudendo vistose somme non necessarie al servizio dello Stato, il Governo si determinò di consentire a prestiti, sia sopra depositi di sete, sia sopra depositi di cartelle del debito pubblico. Questi prestiti tornarono utilissimi al commercio, ed agevolarono ai negozianti di sete della capitale i mezzi di scuotere ed alleggerire il giogo dei banchieri delle piazze di consumazione, di quelli di Lione in ispecie. Col depositare in finanza le loro sete essi poterono procacciarsi il contante di che abbisognavano al 3 per cento, mentre prima dovevano, per ottenere lo stesso oggetto, spedirle a Lione o a Londra, e pagare ai loro corrispondenti grassi interessi e diritti di commissione e magazzinaggio, tali da elevare la ragione dell’interesse al 7 ed anche all’8 per cento.

I prestiti sopra depositi di cartelle del debito pubblico esercitarono pure un’influenza favorevole sulle transazioni commerciali; ma essi diedero in pari tempo origine ad una maniera di speculazioni, che non era certo intenzione del Governo il favorire. Le rendite al 5 per cento, provenienti dai prestiti del 1819 e 1831, essendo per lo più nelle mani di corpi morali, o di capitalisti tranquilli, mantenendosi a corsi elevati, e non offerendo niuna esca alla passione del gioco di sorte, furono solo depositate per provvedere ai momentanei e transitori bisogni dei loro proprietari. Non così per ciò che riguarda le obbligazioni dello Stato, le quali, oltre ad un interesse del 4 per cento sul capitale nominale,hanno il diritto di concorrere ogni semestre ad una specie di lotto, nel quale si distribuiscono vari premi cospicui.

Il Governo, sul deposito di un’obbligazione di lire 1000, mutuava lire 900 al 3 per cento. Si pagava quindi al Governo lire 30, e si ricavava dall’obbligazione per interessi lire 40, più la probabilità di vincere un premio. Su questa base con un piccolo fondo si poteva comprare delle obbligazioni per un valore più volte maggiore, e tentare la seguente speculazione che renderemo chiara traducendola in cifre.

Le obbligazioni si mantennero per più anni fra le lire 1150 e 1250: ne supporremo la media a 1200. Ciò essendo, chi disponeva di una somma di lire 3000, poteva comprare 10 obbligazioni, procurandosi, col depositarle alle Finanze, le lire 9000 che gli mancavano per una tale operazione. Quindi eccone il risultato pecuniario:

Esso da un lato pagava alle Finanze pel mutuo lire 9000 al 3 per cento
L270
Più, per assicurazione contro il rimborso al pari, lire 2,50 ed anche lire 3 per obbligazione a semestre, ossia 5 o 6 all’anno, al più 60
Sborso totale»330
Da un’altra parte, percepiva dalle Finanze 40 lire per obbligazione,cioè per le sue 10 obbligazioniL400
Ed inoltre dalla vendita della probabilità di conseguire un premio,7 ed 8 lire per semestre e per obbligazione, quindi dalle 140 alle 160 lire annue. Adottando la cifra minore»140
Avremo per prodotto totale»540
Deducendo da esso la spesa di»330
Rimaneva un prodotto netto diL210

Così un capitale di lire 3000 poteva fruttare lire 210, cioè il 7 per cento. Le probabilità di vincita si vendettero spesse volte sino a lire 10 per semestre, il che aumentava ancora i benefìzi dell’indicata speculazione.

Quindi essa fu intrapresa da molti affatto estranei al commercio; in ispecie da vari piccoli capitalisti, che aumentavano così le non pingui loro entrate.

Fintanto che fondi abbondanti giacevano infruttiferi nelle arche delle finanze, il Governo non badò a questa speculazione, che avrebbe forse fatto meglio a frenare; ma quando previde avere bisogno in non remoto avvenire di tutti i capitali di cui poteva disporre per far fronte alle ingenti spese delle strade ferrate, cercò limitare i prestiti sopra i depositi, coll’abbreviare le more concedute ai mutuanti, e coll’aumentare la ragione degli interessi percepiti. Questa savia determinazione, adottata sin dal mese di settembre scorso, non produsse una notevole diminuzione nell’ammontare dei depositi, perché a quell’epoca l’Europa e l’Inghilterra in ispecie erano travagliate da una crisi finanziera spaventosa, che rendeva scarsi i capitali su tutte le piazze commerciali.

Quell’epoca, creduta lontana al principio dell’anno, ove sarebbe stato necessario l’avere ricorso ai fondi impiegati nei mutui, fu accelerata singolarmente dai portentosi eventi politici italiani, e specialmente dalla magnanima risoluzione del nostro Re, d’imprendere, senza alcun aiuto di armi o di sussidi stranieri la santa guerra dell’indipendenza italiana. Questi eventi, congiunti all’inevitabile diminuzione dei prodotti indiretti, ed alla tanto applaudita riduzione del prezzo del sale, fecero giudicare al retto ed oculato ministro, cui è affidato il portafoglio delle Finanze, essere il caso di riacquistare la libera disposizione della maggior parte dei fondi spettanti al pubblico erario. Quindi esso deliberò, che i prestiti sopra depositi di cartelle non sarebbero rinnovati, accordando tuttavia una mora di giorni quarantacinque a coloro i quali rimanevano colpiti, quasi d’improvviso, da questa dichiarazione. Ma con provvido e salutare consiglio continuò i prestiti sopra depositi di sete, limitandosi, come ragion voleva, a richiedere dai mutuanti un interesse eguale a quello che corrispondono le Finanze ai sovventori del prestito volontario.

L’annunzio dell’accennata determinazione produsse uno scapito immenso nelle obbligazioni, le quali, anche dopo la rivoluzione francese, si mantenevano al di sopra del lor valore nominale. Caddero gradatamente sino a lire 800, cosicché hanno un 1000 [sic] lire meno del prezzo al quale l’erario le valutava come pegno.

I negozianti di Torino, i quali tutti più o meno si trovano debitori delle Finanze per prestiti ottenuti sovra depositi d’obbligazioni, sbigottiti dallo scapito di esse e dalla necessità di rifondere in breve spazio di tempo i denari mutuati, ricorsero al ministro per ottenere ancora un’ultima mora di tre mesi.

Questa domanda, che a prima giunta potrebbe tenersi per indiscreta, si fonda tuttavia sopra gravissimi motivi, che meritano di essere attentamente ponderati dal Governo.

Il termine fatale, assegnato dall’ultimo editto pel rimborso dei mutui, spira col venturo giugno. Quindi è che le difficoltà pecuniarie, create da queste esigenze del Tesoro, si faranno maggiormente sentire in quel mese, il quale segna l’epoca la più importante per l’industria e l’agricoltura del paese, e che anche in tempi di calma inspira al commercio non irragionevoli apprensioni. Quali saranno allora le condizioni del commercio serico, è pur troppo facile prevedere, bastando perciò il por mente al modo col quale esso provvide all’acquisto dei bozzoli ed all’attivazione delle nostre numerose filature. I fondi a ciò destinati si ricavano: prima, dai capitali propri dei banchieri e commercianti che si dedicano all’industria delle sete; in secondo luogo, dalle anticipazioni fatte dai banchieri esteri, da quei di Lione in ispecie; e finalmente, dagli sconti del Banco di Genova, e dai mutui dei capitalisti del paese.

Ora quest’anno i capitali dei nostri negozianti sono in parte scemati per le sofferte perdite, ed in parte resi non disponibili, perché consistono in mercanzie non vendibili, od in crediti non immediatamente esigibili.

Dopo la rivoluzione di Francia, la vendita delle sete è scemata a segno che il raccolto dell’anno scorso rimane ancora nelle mani dei nostri negozianti. Ma ciò che rende la loro situazione più grave si è che le sete da essi vendute nei mesi antecedenti alla rivoluzione, essendo state loro in massima parte pagate con tratte sopra Parigi, cadute in discredito per difetto di pagamento, essi trovansi creditori di cospicue somme verso i fabbricanti della Germania e della Francia, delle quali è impossibile l’ottenere il pronto rimborso. Lo stato dei fabbricanti lionesi è tale, che se si volessero costringere a pagare immediatamente i loro, debiti, quasi tutti fallirebbero. Quei della Germania sono forse in condizione alquanto migliore, ma provano le maggiori difficoltà per coprire i loro corrispondenti di Torino. Non possono pensare a mandarci dei contanti, dei talleri o dei fiorini. Delle cambiali? Ma quelle sopra Parigi o la Germania, non sono negoziabili, e quelle sopra Londra mancano quasi del tutto.

É quindi probabile che, all’epoca del raccolto dei bozzoli, i capitali dei nostri negozianti si comporranno in parte di crediti inesigibili e non negoziabili.

Per ciò che riguarda le anticipazioni estere, non conviene pensarci quest’anno. I soli sussidi, che il commercio può sperare, sono quelli del Banco di Genova, o dei capitalisti nazionali, che un grave interesse o uno sperato benefizio potranno forse indurre ad impiegare fondi nell’industria serica. Ma, onde questo sussidio sia di qualche efficacia, è indispensabile che il credito, di cui finora gode la piazza di Torino, si mantenga illeso. Se prima, o nel mese di giugno, seguissero fallimenti, la sfiducia, che già s’insinua fra noi, diverrebbe universale; ed il Banco e i capitalisti chiuderebbero ermeticamente le loro casse al commercio.

Ora il Governo, col rendere obbligatorio il pagamento dei prestiti sopra depositi di cedole nel mese di giugno, potrebbe provocare alcune catastrofi, che produrrebbero le funeste conseguenze testé indicate. Onde il commercio avrebbe a lamentare non solo la diminuzione dei capitali di cui ora dispone, ma ancora la distruzione del credito in un momento in cui gli è di somma necessità.

Queste considerazioni gravissime decideranno, almeno lo speriamo, il ministro delle Finanze ad accogliere favorevolmente la domanda defertagli dal commercio. La sua risposta non sarebbe dubbia, ben lo sappiamo, se la chiesta mora potesse accordarsi ai soli negozianti. Ma la necessità di prendere una determinazione generale trattiene forse il ministro poco disposto ad incagliare le sue operazioni finanziere, per favorire dei capitalisti o, peggio ancora, di coloro che speculavano sulla passione del giuoco, che anima i nostri concittadini.

Questa titubanza è naturale; ma non crediamo degno di un distinto uomo di Stato, quale riputiamo il conte di Revel , il negare al commercio un favore che ridonda a sommo vantaggio dell’industria e dell’agricoltura, perché di questo trarranno pure profitto persone che ne sono affatto immeritevoli.

Il favore che il commercio richiede, non può cagionare alcun vero aggravio alle finanze. Si tratta solo di una dilazione di tre mesi, onde attraversare l’epoca critica della filatura. Passata questa, i nostri negozianti avranno ricuperato parte dei loro crediti all’estero, e vendute alcune delle sete che tuttavia ritengono.

Grazie al cielo, ed alla prudente amministrazione del pubblico tesoro negli anni passati, le nostre Finanze non sono ridotte a tali estremi da non poter differire di alcuni mesi l’esazione di quattro milioni. Se però il ministro credesse che la necessità del servigio pubblico non consentisse di concedere intiero il favore che gli vien chiesto, noi lo invitiamo, quanto più caldamente si può, a rinnovare, almeno in parte, i fatti prestiti, coll’esigere solo una porzione delle somme mutuate.

Ora le Finanze accordano lire 900 per ogni obbligazione depositata. Ne accordino ora se non lire 700 per altri tre mesi. Questa determinazione sarebbe utile non solo ai mutuanti, ma altresì alle Finanze; giacché prevediamo che, esigendo l’immediato ed integrale rimborso delle fatte anticipazioni, esse vanno incontro ad infinite difficoltà. Molte obbligazioni saranno abbandonate. Che ne faranno le Finanze? Se esse ne promuovono la vendita ai pubblici incanti, come è il loro incontrastabil diritto, ne seguirà uno scapito immenso nel loro valore; e quindi il Tesoro si troverà creditore personale di molti individui, i quali saranno forse inabili a pagare il loro debito. Donde risulterebbe un’immensa perturbazione economica e gravi perdite pel pubblico erario.

Al contrario, col richiedere il rimborso di sole lire 200 per ogni obbligazione depositata, non si corre il rischio di veder queste abbandonate dai loro proprietari, e le restituzioni, riscosse gradatamente, si opereranno in modo più certo, senza crisi alla borsa, o perdita pel Tesoro.

Ma le facilitazioni che si aspettano dal Ministero, non sono le sole deliberazioni necessarie a preservare il paese dai danni, che minacciano quest’anno l’industria serica. Perciò sono indispensabili altri provvedimenti, per cui si richiede l’opera congiunta dei proprietari e dei filanti.

Ne faremo argomento di un prossimo articolo.

C. Cavour


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